L’accesso ai ruoli a tempo indeterminato nell’accademia italiana è notoriamente una chimera per la stragrande maggioranza di coloro che conseguono un dottorato di ricerca. Negli anni immediatamente successivi alla riforma Gelmini, l'Adi ha stimato che solo il 3% di coloro che hanno ottenuto un assegno post-doc è poi riuscito a ottenere un ruolo da professore associato. L’ultima tornata di dati, raccolti nel 2018, segnala un miglioramento significativo ma totalmente insufficiente: si è passati dal 3% al 10%.
Com’è ovvio, tale situazione risulta problematica da qualunque punto di vista la si guardi. Si tratta, innanzitutto, di un dramma per i giovani capaci e ambiziosi ma si tratta anche di una strutturazione totalmente irrazionale: nonostante la progressiva riduzione delle borse di dottorato, queste continuano a eccedere ampiamente la capacità dell’università di assorbire in maniera stabile nuovi lavoratori; tale situazione rischia solamente di peggiorare con il Pnrr, che prevede un sostanziale aumento del numero di borse. Dal momento che non tutti i tipi di dottorati forniscono competenze e titoli spendibili sul mercato del lavoro privato e che in Italia la figura del dottore di ricerca in quanto tale è poco riconosciuta in sede di reclutamento, risulta evidente come si stiano sostanzialmente utilizzando risorse pubbliche a perdere.
Certo, cinicamente, si può dire che il dottorando può essere adoperato come manodopera estremamente low-cost nel processo di creazione di conoscenza. Ma anche volendo essere cinici e brutali i conti non tornano: non sarebbe più conveniente investire le risorse disponibili sulla formazione di poche figure altamente professionalizzate ed esperte, il cui apporto specifico potrebbe essere più qualificato e prolungato rispetto a quanto possibile per i dottorandi?
L’onorevole Verducci e le forze parlamentari hanno recentemente dimostrato di ritenere che la causa principale di questo stato anomalo e irrazionale del pre-ruolo accademico dipenda essenzialmente dall’incoerenza delle formule contrattuali post-doc. In virtù di tale analisi, si è intervenuti a una riforma sostanziale dei contratti di ricerca post-doc e dei ruoli a tempo determinato. Prima della recente riforma, com’è noto, la carriera accademica prevedeva i seguenti step: conseguimento del dottorato di ricerca, con o senza borsa, in tre anni, preceduto potenzialmente dall’accesso a borse di ricerca normalmente di sei mesi, senza contribuzione previdenziale e con retribuzione vicina ai mille euro mensili; in seguito, accesso ad assegni post-doc annuali ma rinnovabili, percepibili per un massimo di sei anni, esenti da Irpef ma soggetti al versamento di contributi presso la gestione separata Inps.
Dopo il post-doc, la carriera accademica raggiungeva un bivio inspiegabile: da un lato, il binario morto dell’rtd-a, che non dava accesso alla tenure track; persino giunti a questo punto, il 50% dei ricercatori è espulso dal mondo accademico. Sull’altro versante del bivio, gli rtd-b, i quali, una volta conseguita l’abilitazione nazionale, potevano essere reclutati come professori associati. La recente riforma ha apportato due cambiamenti fondamentali al regime pre-ruolo. Da un lato, si sono aboliti gli assegni di ricerca, sostituendoli con contratti di ricerca inquadrati all’interno di un regime di lavoro subordinato. Tali contratti presentano due vantaggi principali: in primo luogo, sono di durata biennale, rinnovabile, e dunque ambiscono a ridurre le discontinuità nelle carriere; in secondo luogo, inserendo i ricercatori come personale subordinato, permettono a questi di accedere alle garanzie a questo associate. Dall’altro lato, si sono aboliti rtd-a e rtd-b, sostituendoli con la figura del ricercatore in tenure-track. La ratio di questa soluzione è autoevidente e risponde semplicemente a un minimo criterio di razionalità e ordine nella strutturazione del percorso pre-ruolo.
Sembrerebbe che, questa volta, il legislatore abbia proceduto in maniera consequenziale alla riforma del pre-ruolo. Quel che sorprende, però, è l’incomprensibile superficialità dell’analisi che ha ispirato la riforma
Sembrerebbe dunque che, questa volta, il legislatore abbia proceduto in maniera consequenziale alla riforma del pre-ruolo partendo da un’analisi chiara della problematicità. Quel che sorprende, però, è l’incomprensibile superficialità dell’analisi che ha ispirato la riforma. Se da un lato l’idea che la selva contrattuale costituisca il maggiore impedimento per coloro che accedono ai ruoli di ricercatore a tempo determinato sembra per certi versi reggere, ciò non è assolutamente vero se si guarda il processo di reclutamento in un’ottica più globale, a partire da coloro che hanno conseguito da poco il dottorato. In questo caso, trattare la questione in termini di riorganizzazione e stabilizzazione ha prodotto il paradosso di peggiorare significativamente la situazione. Questo perché il nuovo regime contrattuale subordinato e biennale obbliga le università ad aumentare di circa il 50% la spesa per ciascun reclutamento e a dover fornire da subito, per giunta, la copertura per i due anni di contratto.
Ciò rende evidente come il problema sia, ancor prima che contrattuale ed organizzativo, finanziario. E questo per due ragioni. Da un lato, c’è un problema strutturale: se aumenta la spesa per ciascun reclutamento ma non aumentano le risorse, evidentemente diminuiranno proporzionalmente i reclutamenti. Questo esito è scolpito nella pietra, poiché il testo stesso della riforma vincola la spesa degli atenei per contratti alla spesa media per assegni degli ultimi tre anni. Non solo: dati i meccanismi di finanziamento degli assegni post-doc, è probabile che la riduzione dei posti sia più che proporzionale all’aumento di spesa per ciascun contratto.
Si pensi, ad esempio, al classico caso di assegno finanziato su bando Prin: oltre alla natura annuale dei finanziamenti, c’è un problema di entità; quanti Prin possono contare su risorse tali da permettere il reclutamento per due anni di un ricercatore, per una spesa totale per l’ateneo di circa 72.000 euro? Chi conosce un minimo l’entità e la ripartizione dei finanziamenti su bando sa benissimo che il rischio è che molti progetti e atenei semplicemente rinuncino a reclutare contrattisti. Rinunciando tout court ad avere collaboratori junior, con grave nocumento per il processo di creazione di conoscenza, oppure inquadrando beffardamente gli ex assegnisti sotto formule ancora più svantaggiose come la borsa di ricerca o l’inquadramento a partita Iva – formule, queste ultime, che invaliderebbero oltretutto il recente ampliamento della Dis-Coll per dottorandi e assegnisti.
È importante notare che, oltretutto, l’aumento di spesa non si traduce in un proporzionale aumento dei salari: passando da assegni a contratti di ricerca i giovani post-doc dovranno d’ora in poi regolarmente versare l’Irpef, in un paradossale meccanismo per cui l’aumento dei costi è in gran parte legato a manovre contabili, con un ramo dello Stato – l’accademia – che finisce per devolvere parte delle proprie risorse alla tassazione generale. Viene quasi da pensare che si tratti di un modo tanto perverso quanto raffinato per mascherare un ulteriore definanziamento della ricerca…
Un intervento dunque superficiale, forse per certi versi doloso, che certamente aumenterà il numero di «esodati» della ricerca. Un passo che prosegue l’evidente trasformazione dell’accademia italiana in un Hunger game, con l’ennesima misura che discrimina tra pochissimi «salvati» e una marea di «sommersi». È infatti indubbio come, per chi riuscirà ad accedere ai nuovi contratti, ci sarà il duplice vantaggio di una maggiore stabilità e dell’espulsione di un gran numero di potenziali concorrenti. Ma un’istituzione statuale può davvero legittimamente funzionare in questa maniera?
In questo quadro stupisce anche il ruolo giocato dall'Adi, organizzazione altrimenti estremamente meritevole e tenace nel difendere e promuovere i diritti dei giovani ricercatori precari, che di fatto ha in un primo tempo chiuso almeno un occhio sulle evidenti criticità del provvedimento, salutandolo come un importante avanzamento. Il tiro è stato corretto in seguito, ma ciò non fa altro che mettere in maggior risalto l’incomprensibile approccio iniziale.
Perché non pensare al "professore esperto" come a una figura che assume un ruolo di frontiera tra l’istruzione superiore e la divulgazione scientifica, mantenendo eventualmente alcuni compiti di ricerca?
Insomma, è evidente come si sia proceduto a un rimestamento dell’esistente senza intervenire sulle cause dirette della situazione disperata della ricerca in questo Paese. Cause, peraltro, estremamente visibili e riconoscibili. Non si può supporre troppa ingenuità da parte del legislatore; piuttosto occorrerebbe tentare di comprendere le ragioni di cotanta dolosa superficialità e trarne le conseguenze politiche. Posto dunque che il problema è chiaramente il finanziamento della ricerca e non un rimescolamento più razionale dei ruoli e accertato che, attualmente, il legislatore è disponibile a intervenire sul secondo aspetto ma non sul primo, occorre forse cominciare a pensare alla creazione di una exit-strategy fattibile e il meno traumatica possibile per tutti gli esodati della ricerca. Se cioè la politica unanimemente decide di non volere investire risorse adeguate a rivitalizzare la ricerca occorre allora pensare a dei modi per salvare il salvabile con le risorse che ci sono. In questo senso, arriva come un ulteriore beffa il recente provvedimento rispetto alla creazione della figura del «professore esperto» presso gli istituti di istruzione superiore. Un provvedimento poco chiaro, che però non prevede nessun tipo di riconoscimento per coloro che, dal mondo della ricerca, si spostano al mondo dell’istruzione superiore – sbocco naturale per moltissimi esodati della ricerca.
Eppure chi può essere più esperto rispetto a una materia rispetto a chi vi ha lavorato al massimo livello di complessità e approfondimento possibile? Perché non pensare al «professore esperto» come a una figura che, proveniente dal mondo accademico, assume un ruolo di frontiera tra l’istruzione superiore e la divulgazione scientifica, mantenendo eventualmente alcuni compiti di ricerca? Ciò, chiaramente, a fronte di una retribuzione rivista in positivo e di un monte orario ed un ruolo differente all’interno degli istituti. Questa proposta, mai dibattuta dalla politica, mi pare quanto di meglio si possa ipotizzare fin tanto che non ci sarà la volontà politica di intervenire alla radice del problema dell’università italiana. A conti fatti, se non si vuole intervenire in maniera strutturale, occorrerebbe quantomeno pensare a dei modi per far sì che le poche risorse devolute alla ricerca possano avere una ricaduta positiva sulla società, anche deviando dalla traiettoria della carriera universitaria.
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