La scelta di chi decide di vivere per la politica e non di politica è quella di accettare una tensione continua, perché vuol pensare di contribuire allo svolgimento della storia e inevitabilmente ne diventa anche in parte vittima. Questo avvenne nella lunga vita politica di Giorgio Napolitano, nato nel 1925 e scomparso in questo tribolato settembre 2023, essendo egli stato partecipe e protagonista di due percorsi certamente intrecciati, ma anche distinti: la militanza nel Partito comunista italiano e la storia dell’Italia repubblicana.
Scegliere di essere un comunista significava ritenersi partecipe di una grande forza storica che aveva l’obiettivo di cambiare il mondo. Nel momento del suo ingresso nella vita adulta non era difficile crederlo, visto tanto il successo del Pci nella sconfitta del fascismo in Italia quanto la partecipazione dell’Urss alla Seconda guerra mondiale. Col passare degli anni continuare nell’ottimismo di questa fede sarebbe diventato sempre più complicato e forse impossibile.
Nella storia dell’Italia repubblicana Napolitano avrebbe affrontato un percorso complesso, per più di un aspetto anche contorto, fino a doversi far carico nell’ultima parte della sua vita di un cambiamento di orizzonte che non era immaginabile non solo negli ardori della ricostruzione, ma anche in fasi seguenti pur drammatiche come l’esperienza della prima “apertura a sinistra”, gli anni di piombo con l’omicidio di Aldo Moro ad opera dei brigatisti, i tentativi di una seconda ricostruzione con la solidarietà nazionale e poi l’avvitarsi su sé stessi dei tentativi di ridisegnare il quadro degli equilibri politici con il declino della Repubblica dei partiti.
Anche solo il freddo elenco delle posizioni ricoperte da Napolitano ci rimanda la sua traversata nella vita politica e istituzionale dell’Italia: parlamentare a partire dal 1953 per dieci legislature, presidente della Camera dei Deputati dal 1992 al 1994, ministro dell’Interno dal 1996 al 1998, presidente della commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo dal 1999 al 2004, nominato senatore a vita nel 2005, presidente della Repubblica dal 2006 al 2013, rieletto poi per un secondo mandato nell’aprile 2013, fino alle dimissioni anticipate nel gennaio 2015 per far ritornare il sistema alla sua normalità.
Confesso che ho vissuto intitolò le sue memorie Pablo Neruda e questo avrebbe potuto ripetere Giorgio Napolitano, passato non certo da comparsa nel travaglio storico del cambiamento d’epoca che ha connotato il quasi secolo della sua vicenda terrena. Non ci può sfuggire il drammatico confronto con una transizione storica che lo ha investito in pieno. Quel comunismo che lo aveva attratto nella temperie della lotta al nazifascismo si sarebbe progressivamente mostrato problematico come capacità di affrontare un mondo che si rivelava diverso da come era stato pensato.
Non possiamo non partire dal trauma del 1956, che, come scrisse nella sua autobiografia, non colse subito, ma che poi divenne “motivo grave di riconoscimento [dell’errore interpretativo immediato] e tormento autocritico”. Si aprì da allora un complesso e anche contorto percorso del Pci portato a riconoscere sempre più a fondo le peculiarità della storia italiana. Portò al giudizio ondeggiante sull’apertura a sinistra, di cui però si coglieva il mutare degli orizzonti di riferimento ad un Paese in profonda trasformazione. L’abbandono travagliato dei superati orizzonti millenaristici che si avviò nel comunismo italiano a partire dal 1963 vide Napolitano sempre più importante fra le personalità che avrebbero aperto alla via verso il socialismo europeo, altra cosa non solo rispetto al comunismo di marca sovietica, ma anche rispetto alla mistica tardorivoluzionaria che pensava di riuscire così a non arrendersi al riconoscimento di un approccio sbagliato come sembrava mostrare la storia (si pensi al fascino perverso della rivoluzione culturale cinese).
Il cosiddetto “migliorismo” fu per lui qualcosa di più di una banale interpretazione correntizia “di destra” del ruolo che poteva giocare un grande partito popolare che non rinunciava alle sue radici
Il cosiddetto “migliorismo” fu per Napolitano qualcosa di più e di assai diverso da una banale interpretazione correntizia “di destra” del ruolo che poteva giocare un grande partito popolare che non rinunciava alle sue radici storiche e ideologiche. La presenza di questa tradizione negli anni di piombo vissuti dalla nostra res publica è stata importante per evitare al nostro Paese certi esiti disastrosi che erano programmati da forze in parte oscure e in parte irresponsabili. Riproponeva un dialogo e un confronto con la pluralità di radici ideali che erano state il nerbo della ricostruzione dell’Italia. In un’epoca come quella attuale, tanto affascinata dai radicalismi, si può ben capire cosa abbia significato nel Pci promuovere quel “compromesso storico” che compromesso non era, ma riconoscimento del dovere di ricostruire quella che doveva essere una “solidarietà nazionale” nella valorizzazione e nel riconoscimento di tutte le forze dinamiche che hanno fatto la nostra storia.
Se non teniamo a mente questo contesto non riusciamo a valutare appieno l’apporto che Napolitano diede all’evoluzione del nostro sistema politico, prima come presidente della Camera dei Deputati e poi come ministro dell’Interno (e chi ha studiato storia politica sa bene quanto sia delicata e impervia quella posizione). Va ricordato che fu Napolitano a pronunciare l’intervento con cui il Pci diede una lettura non negativa ma aperta dell’improvviso avvento al potere di Silvio Berlusconi, perché aveva colto che quel passaggio richiedeva di essere governato e non fatto occasione di ottuso ostracismo e snobistica rimozione.
Fu Napolitano a pronunciare l’intervento con cui il Pci diede una lettura non negativa ma aperta dell’improvviso avvento al potere di Silvio Berlusconi
Quella volta non andò bene. Berlusconi andò a congratularsi con Napolitano dopo quel discorso, provò persino a designarlo commissario europeo per poi cambiare idea repentinamente per accontentare Pannella che voleva in quel ruolo Emma Bonino. Non si può sapere come sarebbe andata senza quel ghiribizzo del nuovo leader politico, ma certo la statura dimostrata da Napolitano in quel non facile passaggio sarebbe stata utile per il difficile compito che gli sarebbe toccato da presidente della Repubblica.
In mezzo c’è l’esperienza al Parlamento europeo dal 1999 al 2004, da lui vissuta con un impegno e una passione che ne fanno uno dei non molti italiani che hanno operato fra quei banchi senza cadere né nell’irrilevanza del pensionato d’oro, né nella sindrome di chi sfruttava la sede solo per fare un po’ di politica-spettacolo. Del tentativo di far fare un passo avanti alla “Costituzione europea” (quella materiale ancor prima di quella formale) egli fu uno dei protagonisti apprezzati in quel mare magnum che sono le istituzioni dell’Unione.
E arriviamo così alla sua avventura come presidente della Repubblica. Avventura autentica, perché ebbe a gestire una fase di profonda trasformazione della conformazione del nostro equilibrio politico in cui ormai la Repubblica dei partiti così come programmata dai costituenti aveva esaurito davvero la sua forza propulsiva, né si vedeva cosa avrebbe potuto sostituirla. In questa contingenza, su cui sarà necessario che la ricerca storica indaghi a fondo, l’ampia e profonda esperienza di uomo politico di Napolitano sarebbe risultata particolarmente preziosa. Egli avrebbe portato a compimento quella nuova fase del Quirinale come in un certo senso timoniere contro gli sbandamenti inevitabili in un sistema che aveva perso le sue mappe e i suoi baricentri.
Gli toccò di sopportare gli sciocchi strali di chi lo definiva “re Giorgio”, dimenticando quanto fosse necessario in tempi di sconvolgimenti degli equilibri politici, ma anche sociali e culturali l’apporto di chi aveva vissuto una pluralità di stagioni di passaggio, perché queste davano una saggezza e una capacità di relativizzare che sono doti di fondamentale importanza per il vero uomo politico (non so se paradossalmente o meno, ma da questo punto di vista c’è un certo parallelo con la vicenda di Alcide De Gasperi). Anche la generosità con cui si piegò ad essere rieletto per un secondo mandato, che non voleva, è testimonianza del suo appassionato tentativo di provare a favorire un riequilibrio del nostro sistema politico.
Non gli riuscì, se non per aver consegnato al suo successore lo strumento legittimato di discreto timoniere per l’ulteriore fase della navigazione del nostro sistema politico. Non è certo poco e chi vuol vedere se ne rende conto ogni giorno (poi i miracoli che risolvono tutto non sono nelle disponibilità degli uomini e meno che meno dei politici).
Crediamo che davvero ci sia una eredità importante che la vicenda di Giorgio Napolitano lascia a tutti coloro che sono disposti a spendersi per il bene comune. È una grande cosa, quella che ci fa concludere con la formula di rito, che vuota non è: riposi in pace.
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