Una cosa che mi ha sempre stupito di Gianfranco, detto Gian, Poggi è il fatto di non avere mai sentito parlare male di lui. Gian era conosciuto praticamente ovunque. Ai margini dei convegni, nei periodi all’estero, negli scambi accademici, era praticamente impossibile non raccogliere storie e pettegolezzi su di lui. Tante storie erano incentrate sulle buffe conseguenze della sua ben nota distrazione. Alcune sulla sua abitudine di spedire agli amici articoli e interventi, talvolta bizzarri, spesso confessando successivamente di non averli nemmeno letti. Credo fosse il suo modo di dire ‘ti voglio bene’.
Ho sentito storie sul modo in cui Gian telefonava, spesso all’improvviso, per subbissarti di domande su qualunque aspetto della tua vita, prima di concederti una sola domanda sulla sua (a cui generalmente rispondeva con un laconico "abbastanza bene" prima di chiudere). C’erano storie sulla sua ritrosia a infilare i bottoni nelle asole giuste, e sulla sua mania di dimenticare il cappello dappertutto (solo nel mio ufficio, ne giacciono ancora un paio). Poi c’erano quelle per gli amici intimi, come di quella volta che Gian, a metà del suo pranzo di nozze, si alzò e serenamente abbandonò il tavolo degli sposi, lasciando Marcella esterrefatta, perché doveva andare a lezione (alcuni dicono sia una leggenda, ma io c’ero e Gian l’ha fatto davvero).
Ho raccolto un sacco di storie, del Gian giovane e del Gian maturo, del Gian collega e del Gian amico. Hanno in comune una sola cosa: sono più o meno divertenti, ma sono tutte affettuose. Non ne ho mai ascoltato alcuna che avesse anche il minimo odore di malignità. Nessuna volta a insinuare qualche dubbio sulla sua persona. Nessun tentativo di diffondere sottotraccia qualche notizia imbarazzante. Gian era una strana specie di unicorno, un accademico a cui nessuno dei colleghi voleva male.
Generalmente, quando si dice una cosa simile si vuole fare intendere che la persona in questione sia stata insipida e incolore, concava e convessa. Wishy-washy, come probabilmente avrebbe detto Gian con uno dei tanti anglismi che gli scappavano. Non potrebbe essere più lontano del vero. Nel lavoro intellettuale, Gian sapeva essere sanguigno, acribioso, persino aggressivo. Era in grado di irritarsi sino all’iperventilazione per qualcosa che aveva letto e che gli sembrava platealmente sbagliato. Una volta, con grande sdegno, saltò in piedi e si arrampicò su una libreria assai precaria pur di giungere a un volume contenente uno scritto minore di Durkheim che avrebbe, a suo dire (io tuttora dissento) smentito un aspetto minore della mia interpretazione. Era un uomo di forti passioni intellettuali, capace quando occorreva – e talvolta anche quando non occorreva – di battute feroci e di strategie astute. Quello che in lui mancava non era la passione, era la meschinità. Sarà stato pieno di difetti, ma non è mai stato una persona meschina, neanche – come pure capita agli umani – per un periodo o in qualche occasione.
Era un uomo di forti passioni intellettuali, capace quando occorreva di battute feroci e di strategie astute. Quello che in lui mancava non era la passione, era la meschinità
Si narra che una volta, indignato per qualche faccenda concorsuale, Gian decise di chiamare uno dei responsabili per dirgli cosa pensava di lui e delle sue azioni. Non trovandolo, trascinato dall’ira, gli lasciò nella segreteria telefonica un lungo messaggio offensivo. Se qualcuno ha conosciuto il suo carattere, la sua verve e la sua creatività con le parole, non può esimersi dal chiedersi se per caso – sul nastro di una vecchia segreteria telefonica dismessa – sopravviva quello che deve essere un capolavoro del genere. Ritrovarlo sarebbe un arricchimento del patrimonio letterario italiano. Coprire di insulti un collega non è mai una bella cosa, anche se non c’è accademico che non l’abbia fatto (e non ne abbia ricevuti). Quello che distingueva Gian è che, e a distanza di decenni, lui ne era ancora addolorato. Il messaggio – complice la tecnologia dell’epoca – era stato infatti ascoltato dal figlio piccolo del malcapitato. Quando ne parlammo, il figlio doveva ormai essere prossimo alla pensione. Eppure, Gian non riusciva a perdonarsi di avere umiliato un padre davanti al figlio. Difficile volere male a un tipo del genere.
Anche la sua produzione intellettuale è un magnifico esempio di passione senza meschinità. Gian aveva molti interessi, e preferenze ben chiare. Se non si è mai occupato di certi autori – straordinariamente popolari negli ultimi decenni – non è stato sicuramente per mancanza di tempo. Se ha continuato a occuparsi di altri autori dimenticati da molti, non è stato per inerzia. Erano scelte meditate, che non avevano bisogno della polemica e del posizionamento tattico per essere assunte in modo sereno e comunicate in modo trasparente.
Aveva molti interessi, e preferenze ben chiare. Se non si è mai occupato di certi autori – straordinariamente popolari negli ultimi decenni – non è stato sicuramente per mancanza di tempo
Lo si vede anche dallo stile di scrittura di Gian, chiaro e netto ma mai sminuente. Impossibile non invidiarlo, difficilissimo imitarlo con successo. È uno stile incredibilmente preciso, in cui tutte le parole sono scelte con cura e tutte le espressioni gergali vengono cancellate. Uno stile che rende quasi tutti i suoi testi leggibili da chiunque conosca l’alfabeto. Fate leggere una pagina di Gian a tutti i docenti universitari italiani e fucilate tutti quelli che lo definiranno con dispregio ‘divulgativo’: sarà la migliore riforma universitaria possibile.
Per gli increduli, è sufficiente citare Lo Sviluppo dello Stato Moderno. Profilo sociologico (pubblicato in italiano nel 1978, naturalmente dal Mulino). Ha letteralmente cambiato la sociologia politica mondiale, dimostrando che non è possibile capire la società contemporanea se si ignora la centralità (e l’originalità) dello sviluppo dello stato occidentale moderno. Molti decenni dopo, è ancora il migliore antidoto alla tendenza degli scienziati sociali a dissolvere l’aspetto organizzato, corporato, del potere in una varietà di congegni più o meno impalpabili. Evidenzia come lo stato di diritto sia il fragile prodotto di una serie di circostanze storiche forse irripetibili, che andrebbe quindi maneggiato con cautela invece di darlo per scontato. Mica poco vero? Eppure, è tutto contenuto in un testo di 178 pagine che ogni studente del primo anno può leggere senza fatica, anzi (a dire il vero) dovrebbe leggere.
Ne sono seguiti molti altri lavori sullo stato e sul potere, tutti tradotti in molte lingue. Studi che integrano conoscenze storiche, giuridiche e sociologiche in modo più unico che raro. Credo si possa dire che nessuno che voglia dedicarsi allo studio del potere evitando il confronto con Gian Poggi può essere preso sul serio. Eppure, quello meno convinto del carattere indispensabile del suo lavoro era proprio Gian. Lui cedeva volentieri il podio a Phänomene der Macht di Heinrich Popitz, uno degli autori contemporanei che Poggi ha amato di più. Lungi dal temere che il successo di Popitz potesse oscurare il proprio, Gian è sempre stato molto contrariato dal fatto che Popitz non avesse la fama che gli spettava. È stato il primo a recensirlo in modo entusiastico, ha scritto l’introduzione dell’edizione italiana (apparsa nel 1990, naturalmente presso il Mulino) ed è giunto a tradurre lui stesso il testo per rendere possibile l’apparizione di una lungamente attesa traduzione in inglese (apparsa solo nel 2017 per Columbia). Difficile volere male a un collega così.
Ancora più importante, almeno a mio giudizio, è il lavoro che Gian ha svolto per definire il ruolo dei classici nella ricerca sociale contemporanea. Un percorso cominciato con Immagini della società: saggi sulle teorie sociologiche di Tocqueville, Marx e Durkheim pubblicato nel 1972 in inglese e nel 1973 in italiano (naturalmente dal Mulino). È il primo libro che ho letto di Gian, ancora da studente, e ho trovato naturale rileggerlo in questi giorni come personale variante accademica del Kaddish del lutto. Ne ho tratto tre conclusioni. Il primo è che, cinquanta anni dopo, è ancora altamente leggibile ed attuale (a proposito, Il Mulino dovrebbe proprio decidersi a ristamparlo). Il secondo è che anche il lettore più sospettoso non troverà traccia di tentativi di indirizzare verso un approccio piuttosto che verso un altro. Non che Gian non avesse preferenze naturalmente. Ma non ha mai ritenuto che il suo lavoro fosse quello di indottrinare il lettore. Terzo, già allora Gian aveva sperimentato un metodo che non ha mai più abbandonato.
Metodo che ha una componente negativa: i classici del pensiero sociale non sono un peso del passato di cui bisogna liberarsi al più presto perché inquinano la scientificità della disciplina, e nemmeno un insieme di figure che vanno regolarmente santificate (o, in tempi più recenti, esecrate) a fini di legittimazione. Gian non aveva alcun interesse per i ritratti agiografici (o denunciatori) di questo o quell’autore che compongono sì grande parte della produzione che i poveri commissari Asn devono analizzare. Sospetto gli interessassero anche meno gli approcci, oggi diffusi, che prescindono dal valore dei testi per spiegare il loro impatto esclusivamente in termini di strategie individuali e meccanismi istituzionali. La componente positiva del metodo era egualmente chiara: quello che co nta è solo il confronto diretto, serrato, coi testi – Gian diffidava della letteratura secondaria – sviluppato in riferimento, e in dialogo, con le tematiche cruciali della ricerca contemporanea.
Riteneva fondamentale riconoscere che le scienze sociali hanno sicuramente una dimensione cumulativa, dove la conoscenza di oggi supera e sostituisce la precedente. Ma hanno anche un insieme fondante di preoccupazioni e di idee (e di ambiguità, e di limiti…) che alcuni autori hanno articolato in modo insuperato. Per questo motivo, le opere di questo insieme di menti straordinarie (soprattutto Durkheim, Marx, Simmel e Weber) costituisce un orizzonte ancora attuale delle scienze sociali. Rappresenta un corpus di testi che proprio perché alieni dalla pratica quotidiana della ricerca contemporanea, costituiscono un confronto ineludibile per ogni studioso serio. «Lego quia inutile» è il titolo di uno dei suoi articoli più belli.
Per un uomo come Gian, costantemente alla ricerca di nuovi stimoli e nuove scoperte, invecchiare è stata l’impresa più dura. Soprattutto quando la cosa per lui forse più preziosa, la memoria, ha cominciato ad affievolirsi. Eppure, sino agli ultimi giorni, pur con un corpo indebolito e una mente sempre più stanca, non ha mancato di fare sentire il suo affetto a chi lo conosceva. Difficile non volere bene a un uomo così.
[Ph. Alessio Coser, ©UniTrento]
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