Gli studi recenti sulla criminalità organizzata in Italia si sono sviluppati con sguardo particolarmente attento all’uso accorto delle fonti, combinando metodi e approcci tipici di un’ampia gamma di discipline storico-sociali. Con il risultato di descrivere in modi più articolati e attendibili fenomeni difficili da esplorare nella loro genesi e riproduzione. L’ultimo lavoro di Luciano Brancaccio (I clan di camorra. Genesi e storia, Donzelli, 2017), incentrato proprio sulla genesi e sulla riproduzione della camorra, ne è un bell’esempio.
Nell’introduzione, dopo aver sottolineato che la camorra è stata a lungo considerata, erroneamente, una sorta di sorella minore della mafia siciliana, ci si sofferma sulla necessità di una particolare cautela nell’utilizzo delle fonti giudiziarie, che valgono non per le «verità» definite nelle sentenze, ma per le tracce che i procedimenti lasciano, per le storie e i percorsi di clan, famiglie e gruppi che dall’indagine emergono. La stessa attenzione va prestata ad altre fonti, come la pubblicistica e la fiction, che tendono a semplificare, spesso descrivendo «centri occulti, reti complottistiche, organizzazioni centralizzate e aliene dal contesto sociale, società segrete». Nel libro viceversa l’accento viene posto sulle determinanti economiche e sugli spazi di mercato che definiscono le condizioni sociali per la genesi della camorra. Genesi che – si afferma – è per la camorra, a differenza di altre mafie, più importante della riproduzione.
Nel libro si delinea un quadro complesso della camorra, articolata in più gruppi e in vari livelli gerarchici – famiglie, clan, gruppi – in cui stabilità e instabilità sono compresenti. Un quadro che esclude, proprio per il metodo e l’impostazione della ricerca, l’idea che i gruppi criminali siano meccanicisticamente il frutto di una strategia criminale volta alla consapevole costituzione di un gruppo mafioso.
Ciò rende conto anche della stratificazione in più livelli di questo mondo criminale: «aristocrazia» delle famiglie camorriste, per alcune delle quali si ricostruiscono, attraverso alberi genealogici, attività in vari settori lungo una linea del tempo che ricopre fino a cinque generazioni; gruppi, cioè aree intermedie di competenze criminali specializzate per settore; infine porzioni minori di individui e piccoli gruppi che controllano attività illegali su minuscole porzioni di territorio o in specifici settori. Una stratificazione che permette di spiegare anche i differenti gradi di stabilità/instabilità lungo la dimensione gerarchica, con le famiglie storiche camorristiche più durature nel tempo, anche se non del tutto esenti da instabilità, e con turbolenze crescenti man mano che si scende verso i gradi bassi della gerarchia. I mercati sui quali viene verificato questo quadro interpretativo sono tre: contrabbando di sigarette, mercato dell’abbigliamento, filiera del falso.
Uno dei non pochi pregi del lavoro di Brancaccio è la capacità di ricostruire quadri generali di spiegazione prendendo le mosse dall’analisi di un singolo caso di studio. Da un caso di cronaca, ad esempio l’uccisione di un contrabbandiere nel 1952 sotto bordo di una nave americana ormeggiata nel porto di Napoli, si ricostruiscono caratteristiche e trasformazioni di un mercato illegale. L’uomo appartiene a una famiglia di un quartiere del Borgo Santa Lucia, che da più generazioni pratica il contrabbando. Un’attività tipica dei mestieri marinari di quel borgo, che ha da sempre coinvolto anche donne e bambini, e che negli anni Cinquanta caratterizza molte famiglie al limite dell’indigenza. Un mercato che registrerà profonde trasformazioni nel corso dei Sessanta e Settanta, passando da forme «artigianali» di contrabbando, con barche di piccoli dimensioni e piccoli carichi, all’utilizzo dei motoscafi d’alto mare con grosse partite acquistate direttamente all’ingrosso dalle multinazionali del tabacco. Negli anni Settanta cambia la struttura delle opportunità, anche a seguito di condizioni come l’importanza del porto di Napoli che diventa snodo strategico dei traffici via mare nel Mediterraneo, e dell’insediamento nel territorio napoletano di mafiosi siciliani, latitanti o inviati al soggiorno obbligato. Si creano condizioni per alleanze a scambi di competenze e servizi. Emergono allora tre gruppi camorristi che in coalizione tra loro regolano oligopolisticamente un mercato, quello del contrabbando, che si stima dia da vivere a cinquantamila persone, e che si inseriranno successivamente nel traffico di stupefacenti. I clan che regolano questo mercato crescono di dimensioni, anche fino a mille persone, ma si formano tutti dentro le storiche famiglie di camorra. Anche gli homines novi hanno bisogno di entrare nelle famiglie storiche, per esempio attraverso strategie matrimoniali. Quando negli anni Novanta il mercato del contrabbando entra in crisi, si assiste a una riconversione verso il mercato del recupero crediti, dell’usura, della ristorazione. E un aspetto importante sarà dato dalle connessioni fra clan camorristici e reti di scambio clientelari, come dimostrato dall’organizzazione di una serie di truffe ai danni del sistema pensionistico.
Il contesto in cui si affermano i gruppi criminali presenta un eccesso di circolazione e distribuzione di merci e, conseguentemente, una proliferazione di mestieri al confine fra lecito e illecito. Occupando gli snodi centrali nei mercati e nei quartieri, «i clan di camorra costruiscono circuiti di autorità attraverso la violenza, producendo forme di regolazione e stabilizzazione dei rapporti economici», ma al contempo distribuiscono risorse. Questa complessa funzione, caratterizzata da instabilità, conflitti, scissioni e avvicendamenti continui, rende conto della crescita delle organizzazioni, che si stima siano passate da 12 nel 1983 a 180 (di cui la metà a Napoli) nel 2015. E spiega anche, con l’elevato numero di omicidi per camorra – 1.260 fra 1995 e 2015, un numero superiore a quelli delle altre mafie italiane nello stesso periodo – quanto il controllo di traffici e territorio sia importante, determinando guerre fra cartelli, faide e scissioni da risolversi con la violenza.
A differenza dei contrabbandieri, i magliari, venditori ambulanti di capi d’abbigliamento e in seguito di altri oggetti (orologi, stoviglie, posate, bracciali e bigiotteria) operano su un mercato legale, anche se la loro genesi è legata al mercato nero e a quello delle tessere annonarie rubate. Non producono direttamente, ma commissionano produzioni decentrate a domicilio. Sebbene non si tratti di mercato illegale, i rischi di opportunismo sono elevatissimi, e pertanto la regolazione violenta diventa indispensabile per il rispetto degli affidamenti. La rete dei magliari, sviluppatasi a Napoli, assume ben presto una dimensione internazionale, ma non emerge una struttura delle opportunità favorevole alla loro trasformazione in gruppi camorristici. È con la crescita del contrabbando e del traffico di stupefacenti su larga scala che alcune parti di quel settore assumono tratti camorristici. Ciò avviene negli anni Ottanta, in coincidenza con lo sviluppo urbanistico dell’edilizia residenziale nei quartieri a Nord di Napoli (Secondigliano e Scampia), caratterizzati da elevati tassi di disoccupazione, traffico di stupefacenti, ideali per rifugio di latitanti e come magazzini per stoccaggio di merci illegali, e per il reclutamento di manodopera criminale nei ranghi dei disoccupati. L’Alleanza di Secondigliano, fondata da due storiche famiglie di magliari, segna il passaggio da un settore legale con pratiche illegali, al dominio dei gruppi camorristici su un mercato che progressivamente si trasforma in una filiera internazionale del falso.
Brancaccio non manca di segnalare come tale trasformazione presenti numerosi vantaggi per i gruppi camorristi. È un settore in cui i reati che si commettono non sono particolarmente gravi e non comportano lunghe reclusioni; ha un’elevata redditività; serve per reinvestire proventi derivanti da altri settori illeciti, come il traffico di droga. E descrive in maniera articolata non soltanto la complessità della rete organizzativa, ma il formarsi del dominio mafioso sulla magliareria indipendente, con l’imposizione di tangenti sulle vendite dei capi d’abbigliamento. Si tratta di un nodo importante, quello dei rapporti tra gruppi che regolano il mercato con l’uso della violenza e soggetti imprenditoriali. O meglio delle relazioni tra funzioni imprenditoriali e funzioni di regolazione violenta. Perché, secondo l’autore, in questo caso non si tratta di «crimine organizzato convenzionale». Gli imprenditori non soggiacciono passivamente all’imposizione mafiosa. Nella filiera del falso c’è «una gamma di ruoli organizzativi con diversi livelli di potere ma sempre con una forte connotazione imprenditoriale». In altri termini è difficile tracciare una distinzione netta fra camorristi e imprenditori, fra affiliati e non, perché i ruoli appaiono sfumati e spesso sovrapposti.
Ne discende forse il contributo più rilevante, sotto il profilo dei quadri analitico-interpretativi, alla comprensione della genesi dei gruppi criminali. Non si tratta di forze esogene che penetrano dall’esterno le attività produttive, commerciali, distributive. Al contrario, questi gruppi si formano all’interno dei tessuti economici, dei mercati, dei settori distributivi. Riprendendo la prospettiva di Sciarrone e Storti, secondo cui «i mafiosi non sono altro rispetto all’area grigia, non si trovano in uno spazio diverso, ne fanno parte a tutti gli effetti, si collocano al suo interno», Brancaccio evidenzia come non sia la mafia allo stato evoluto che penetra l’economia legale, ma quest’ultima che è soggetta a forme di mutazione in senso criminale.
È una prospettiva che ribalta il modo tradizionale di guardare ai rapporti tra organizzazioni criminali ed economia. E alla quale sarebbe valsa la pena di dedicare qualche ulteriore riflessione nelle conclusioni.
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