Nacque nel 1913 a Trieste, principale porto di un impero che l’imminente Grande guerra avrebbe dissolto, non in un giorno qualsiasi. Il 18 agosto cadeva – come gli piaceva ricordare – il genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe, ricorrenza celebrata anche dopo la fine della monarchia austro-ungarica, come a Giassìco, vicino a Cormons, dove Kanizsa amava recarsi per festeggiare la complessità delle sue origini. Figlio di un ebreo ungherese e di una slovena dell’alta valle dell’Isonzo, dalle sue origini aveva preso la giusta distanza – almeno geografica – facendo infine di Milano la patria d’adozione, dove poteva ritrovarsi vicino al maestro Cesare Musatti e sentirsi parte di un ambiente culturale appagante.

Quanto a quel cognome un po’ ostico e spesso distorto, si adattava perfettamente a Kanizsa una battuta originariamente riferita agli scienziati ungheresi (in maggioranza ebrei) rifugiatisi negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo oppure, in una seconda ondata, alla dominazione sovietica: “You don’t need to be Hungarian to be a genius, but it helps!”; battuta che con qualche variante circolava anche nella Hollywood degli anni d’oro. Bela Julesz – altro grande della scienza della visione del Novecento – la ripeteva con il suo marcato accento centro-europeo, trovandola non soltanto un magnifico esempio di basic joke, ma soprattutto un acuto omaggio a un tipo particolare di intelligenza creativa, contraddistinta dal tratto della genialità.

Che il tratto della genialità fosse riconosciuto a Kanizsa da chi lo conobbe direttamente, e da molto vicino, è abbastanza chiaro. Oltre all’ammirazione che per lui ebbero i parenti accademici più stretti – il mentore Cesare Musatti, l’amico Fabio Metelli e l’allievo Gianni Vicario (nella catena dei suoi assistenti, quello emblematico) – basti l’immagine con cui Renzo Canestrari, fondatore della scuola bolognese di psicologia, descrisse in un’occasione il collega triestino: “ha un’intelligenza al fulmicotone”. Cosa c’era di esplosivo, nello stile scientifico di Kanizsa? E in quale misura questo tratto contribuì alla sua notorietà internazionale?

Il triangolo di Kanizsa

La storia della sua creazione più famosa – ripercorsa nella raccolta Il mio triangolo (2008, con presentazione di Walter Gerbino) – fornisce una risposta a entrambe le domande. Kanizsa ha quarant’anni quando torna a Trieste per coprire la cattedra di psicologia. Negli anni immediatamente successivi pubblica i risultati di varie ricerche sulla percezione visiva, tra le quali spiccano quelle su un tipo particolare di margini figurali, che appaiono evidenti pur in assenza di un corrispettivo stimolo locale. A queste ricerche approda dopo un percorso scientifico variegato, iniziato con la stesura di una tesi di laurea che includeva un piccolo contributo empirico dedicato a un argomento – la proporzione di individui qualificabili come eidetici – destinato a scomparire dall’orizzonte dei suoi interessi scientifici. Nella Nota introduttiva contenuta nella tesi su “I fenomeni eidetici e le dottrine di E. R. Jaensch” (Università di Padova, anno accademico 1936/37), Kanizsa osservava con qualche disappunto che “i risultati della mia ricerca sperimentale, anche se le esperienze hanno occupato una notevole quantità di tempo, possono tutti venir compendiati in un paio di tabelle numeriche”. Gran parte della tesi aveva riguardato, oltre all’esposizione delle dottrine di Jaensch, un problema generale che sarebbe invece rimasto al centro dei suoi interessi scientifici, quello delle somiglianze e differenze (soprattutto le seconde) tra la percezione e gli altri processi cognitivi. Non era comunque mancata l’attenzione metodologica per la falsificazione delle ipotesi sulla base delle evidenze empiriche, testimoniata dal seguente passaggio: “Secondo Jaensch si ha effettivamente costante coincidenza fra basso tasso di sali dell'acqua potabile e alta percentuale di eidetici. L'esito delle nostre esperienze contraddice invece a questa affermazione di Jaensch in quanto l'acqua di Conegliano è un'acqua particolarmente dura, mentre la nostra ricerca rivela una forte percentuale di eidetici” (p. 48 della tesi). Al tempo Kanizsa insegnava in un liceo di Conegliano e su indicazione di Musatti aveva scelto le immagini eidetiche come argomento di tesi proprio in rapporto al presunto ruolo delle locali acque. Come si sarebbe evoluto quel gusto per la falsificazione lo ha raccontato Paolo Bozzi nella più bella e completa analisi dello stile scientifico di Kanizsa, la presentazione che introduce la seconda ristampa della Grammatica del vedere (1980, il Mulino).

Ma veniamo al 1954, anno in cui Kanizsa partecipa al Convegno degli psicologi italiani di Chianciano. Gli atti includono un breve resoconto intitolato “Linee virtuali e margini fenomenici in assenza di discontinuità di stimolazione”, che di quello stile contiene le caratteristiche essenziali: sintesi di un problema percettivo (i margini di una figura non sempre corrispondono a una discontinuità nella stimolazione), creazione di un’immagine “che parla da sola” (nel caso specifico, un triangolo che appare più chiaro dello sfondo fisicamente identico), formulazione di un’ipotesi (alcune parti dello stimolo tendono a completarsi e per farlo “richiedono” l’emergere di una figura illusoria collocata in primo piano), produzione di controprove (in assenza di completamento, la figura illusoria non emerge). Il resoconto è apparentemente semplice: linea di ragionamento diretta, linguaggio sorvegliato e scarno, grafica ridotta al minimo necessario a produrre il massimo effetto desiderato.

Un anno dopo Kanizsa pubblica sulla Rivista di psicologia un lungo articolo che espande in modo significativo il contributo al convegno di Chianciano. Lo intitola “Margini quasi-percettivi in campi con stimolazione omogenea”, qualificando i contorni illusori con un’espressione che poi avrebbe criticato (preferendo “contorni anomali”, in contrasto con la normale corrispondenza tra margini fenomenici e disomogeneità della stimolazione locale). La traduzione inglese dell’ormai celebre articolo sarebbe apparsa nel 1987 in The Perception of Illusory Contours, volume curato da Susan Petry e Glenn E. Meyer, che un anno prima avevano riunito in una conferenza internazionale molti degli studiosi del fenomeno di cui Kanizsa aveva fornito un’esemplificazione così pregnante e una spiegazione assai penetrante; spiegazione che per altro Kanizsa – incline a guardare con sospetto le teorie, anche le proprie – avrebbe criticato proprio nell’asciutto addendum che suggella la traduzione pubblicata nel 1987.

L’articolo del 1955 è prezioso per vari motivi: i margini illusori vengono chiamati “quasi-percettivi”, a sottolineare l’evidenza allucinatoria assunta in condizioni ottimali da sagome che in condizioni subottimali appaiono solo accennate; il gradiente di evidenza fenomenica corrispondente ai vari tipi di linee e contorni virtuali è discusso in modo approfondito; le condizioni in cui si producono i margini illusori sono esplorate in modo sistematico, sottolineando che quelli ad andamento curvilineo possono avere la stessa evidenza di quelli ad andamento rettilineo e che la loro resistenza alla deformazione può destare “meraviglia ed un certo divertimento negli osservatori”.

Kanizsa usava in modo magistralmente consapevole la sua capacità di sorprendere l’osservatore, nutrita dal piacere che lui stesso provava nello scoprire un fenomeno nuovo (cioè nel togliere quella copertura metaforica che fino a un attimo prima ne precludeva l’osservazione). Era attratto da tutte le forme di magia e avrebbe apprezzato il recente interesse di molti studiosi di percezione per i trucchi illusionistici, in particolare quelli mediati dal completamento amodale, effetto che contribuì a isolare e cui dedicò molta della sua produzione scientifica. A questo proposito si vedano “The other side of magic: The psychology of perceiving hidden things” di Vebjørn Ekroll e coll. (Perspectives on Psychological Science, 2017) e “Amodal completion revisited” di Walter Gerbino ( i-Perception, 2020).

Dietro ai dischi grigi la scacchiera non continua nel modo più logico. La simmetria globale è rotta dalla presenza amodale di una croce nera (in basso a sinistra) e di una croce bianca (in alto a destra), indotte dalla tendenza alla continuazione locale dei contorni.

Nel 1972 quella magia geniale – il triangolo illusorio – arriva su Nature grazie a un breve ma influente articolo di Richard Gregory, che titola “Cognitive contours” e discute il fenomeno in chiave neohelmholtziana. L’articolo di Gregory contribuì molto alla fama internazionale del triangolo di Kanizsa e al suo utilizzo come banco di prova per la contrapposizione tra due nozioni che dividono e dominano la scienza della percezione: probabilità per Helmholtz e semplicità per i teorici della Gestalt.

Nel 1974 Kanizsa argomentò la sua netta contrarietà a una spiegazione neohelmholtziana dei contorni illusori in Contours without gradients or cognitive contours?, articolo apparso nel primo fascicolo del neonato “Italian Journal of Psychology” e ripubblicato nei volumi Organization in Vision (Praeger, 1979) e Grammatica del vedere (Il Mulino, 1980). Tuttavia, la contesa teorica sul triangolo cui aveva dato il nome non poté che fargli piacere, confermandolo in quella che era una sua radicata convinzione: almeno in percezione, è molto meglio spendere le proprie energie per la scoperta di un fenomeno, che per la sua misura o spiegazione.

Successivamente, i molti fenomeni visivi scoperti da Kanizsa in un quarto di secolo irruppero sulla scena internazionale, con tutto il peso dell’evidenza irrefutabile, grazie alla pubblicazione di Organization in Vision, una raccolta di lavori prima disponibili per lo più solo in italiano. Il volume venne accolto con entusiasmo e contribuì non poco all’affermazione dell’ambito di studi chiamato middle (o mid-level) vision, fondato proprio sul concetto di organizzazione.

La scienza della percezione è tuttora teatro di vivaci contrapposizioni teoriche, rispetto alle quali – in virtù delle sue dimostrazioni visive – a Kanizsa viene riconosciuta una posizione privilegiata, come emerge dal dibattito sulla (im)penetrabilità cognitiva della percezione. Commentando le ovvie (ma spesso sottovalutate) differenze tra vedere e pensare, e in particolare il conflitto tra percezione e aspettative razionali, all’inizio del loro target article su “Cognition does not affect perception” Firestone e Scholl (2016, in “Behavioral and Brain Sciences”) dicono: “Perhaps nobody has elucidated the empirical foundations and theoretical consequences of this observation better than Gaetano Kanizsa, whose ingenious demonstrations of such conflict can, in a single figure, obliterate the worry that perception and cognition are merely folk categories”.

 

 

Gaetano Kanizsa scomparve il 13 marzo 1993. Nello stesso anno l’Università di Trieste istituì una memorial lecture, che da allora ogni anno ha offerto a un uditorio ampio e non specialistico l’occasione di incontrare uno scienziato che abbia contribuito in modo originale alla ricerca sulla percezione e sui processi cognitivi. Il primo relatore fu Irvin Rock, che in The Logic of Perception (Mit Press, 1983) aveva argomentato la superiorità di un approccio raziomorfo alla percezione. La Kanizsa Lecture del 2022 si terrà a Trieste venerdì 8 luglio, nell’ambito della Conference of the Society for Gestalt Theory and its Applications, società scientifica che nel 1987 aveva attribuito a Gaetano Kanizsa e Riccardo Luccio il Wolfgang Metzger Award per la loro analisi critica del concetto di pregnanza, problematica eredità della teoria gestaltista. Il relatore di questa trentesima Kanizsa Lecture, intitolata On crossmodal and multisensory gestalts: evidence & application, sarà Charles Spence (Università di Oxford). La prima parte del suo intervento riguarderà la ricerca di base sui raggruppamenti percettivi intermodali; la seconda l’applicazione dei principi di organizzazione percettiva all’arte e all’intrattenimento. Come da tradizione la Kanizsa Lecture è un evento pubblico, aperto a tutti gli interessati.