Sul vetro smerigliato della sua Linhof 10 × 12 il grattacielo staliniano appariva doverosamente a testa in giù. Mosca, un giorno del 2007: mentre cercava l’inquadratura giusta, Gabriele Basilico notò la ragazzina nativa digitale che da un po’ gli ronzava attorno, incuriosita da quel macchinario stregonesco e antico. Allora sollevò il panno scuro e le mostrò la città così, sottosopra, per godersene la sorpresa. Chissà che in quel momento, e proprio lì, nella capitale delle illusioni perdute, Basilico non abbia riflettuto su questo fatto, che la sua macchina di grande formato produceva automaticamente quel ribaltamento dialettico del reale che Marx intendeva operare sulla filosofia hegeliana. Comunque sia, la fotocamera come meccanismo analitico, filosofico e politico è stata per oltre quarant’anni il suo strumento. La sua scelta delle armi.La sua macchina di grande formato produceva automaticamente quel ribaltamento dialettico del reale che Marx intendeva operare sulla filosofia hegelianaBasilico non è stato solo uno dei pochi fotografi italiani conosciuti nel mondo, un maestro internazionale della rappresentazione dello spazio antropizzato. È stato uno dei protagonisti di un tentativo tanto generoso quanto ormai abortito: quello di legittimare il fotografo come intellettuale dello sguardo critico. Sono trascorsi trent’anni da quando un ottimista Luigi Ghirri si diceva convinto che «la figura del fotografo è oggi più sfaccettata, più attiva», e che «in questi ultimi tempi il fotografo partecipa attivamente alla creazione di realtà con quelle che potremmo definire operazioni culturali globali». Dopo lo scioglimento del gruppo che lui stesso aveva messo assieme (Basilico ne fece parte) per il fondamentale Viaggio in Italia che nel 1984 ruppe definitivamente con gli stereotipi della fotografia italiana di paesaggio dalle vedute Alinari in poi, quella prima «operazione culturale globale» non ebbe seguiti, se non nel percorso individuale, pur eccellente, di chi vi aveva partecipato. Una massa critica, un movimento a favore di un’idea di fotografia come disciplina analitica e campo della cultura non riuscì più a ricomporsi; prevalse la fatale attrazione delle sirene del sistema dell’arte, col suo imperialismo mercantile tanto seducente quanto soffocante.È stato uno dei protagonisti di un tentativo tanto generoso quanto ormai abortito: quello di legittimare il fotografo come intellettuale dello sguardo criticoA sei anni dalla sua scomparsa dobbiamo allora ripensare all’itinerario di Gabriele Basilico non sotto la specie della biografia d’artista, ma come la scelta di un intellettuale controcorrente, non rassegnato alla marginalizzazione del suo linguaggio d’elezione nelle gabbie dorate dell’estetica.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 1/19, pp. 127-133, è acquistabile qui]