Lo scorso mese di luglio ricorreva il quarantesimo anniversario della morte di Franco Rodano, un importante politico e intellettuale della seconda metà del secolo scorso. Forse oggi, dopo tanti anni, pochi si ricordano di lui e pochi giovani ne hanno sentito parlare. Ma Rodano è stato un personaggio che merita di essere conosciuto, perché protagonista della vita politica italiana dal 1940 ai primi anni Ottanta, e perché nei suoi scritti ha esplorato temi che, anche oggi, mantengono una significativa attualità. Qui sarà possibile riprenderne, e per sommi capi, solo alcuni.
Rodano era conosciuto come l’“eminenza grigia” di Berlinguer (lo era già stato, in precedenza, di Togliatti) e come un cattolico comunista. Ancora più diffusa era l’etichetta, giornalistica e sbrigativa, che lo definiva l’ispiratore del “cattocomunismo”, che propugnava l’incontro tra comunisti e cattolici-democratici. E ancora come “padre” e teorico del compromesso storico.
Queste etichette non gli rendono giustizia. Per quanto riguarda quella dell’“eminenza grigia”, è vero che per gran parte della sua vita Rodano ha fatto politica senza ricoprire cariche di partito o nelle istituzioni; ed è vero che molti politici importanti (del Partito comunista soprattutto, ma anche di altri partiti della Prima Repubblica, come la Democrazia cristiana, il Partito socialista e quello repubblicano) ricorrevano spesso ai suoi consigli; infine è vero che Rodano e Togliatti erano amici (con Berlinguer il rapporto era più distaccato). Ma c’era stata una fase importante della sua vita in cui Rodano si era impegnato in politica in prima persona.
Negli anni Quaranta del secolo scorso, Rodano fondò e diresse, con altri, varie iniziative politiche, tutte caratterizzate da un netto antifascismo e dall’adesione alle istanze del movimento operaio: le più importanti sono state il Movimento dei cattolici comunisti e il Partito della sinistra cristiana. Rodano partecipò in posizioni di vertice alla resistenza romana contro i nazifascisti. Conobbe l’esperienza della clandestinità. Fu anche imprigionato (liberato il 25 luglio del 1943). Nel 1945, dopo la conclusione della guerra e la liberazione, sciolto il Partito della sinistra cristiana, Rodano e altri esponenti di quel partito si iscrissero al Pci. Al suo interno, Rodano svolse un’intensa attività pubblicistica: sul settimanale “Rinascita”, di cui fu per vari anni redattore, e sul “Politecnico” di Elio Vittorini, della cui redazione romana fu responsabile.
La fase pubblica dell’esperienza politica di Rodano terminò alla fine del 1947, quando il Sant’Uffizio gli comminò l’interdizione dai sacramenti per non aver accettato di ritrattare le proprie posizioni. L’interdizione fu ritirata solo dopo il Concilio vaticano II. Rodano per molti anni firmò i suoi articoli con pseudonimi o lasciò che uscissero anonimi. Ma i suoi rapporti con la politica e con i politici del Pci (e non solo) restarono intensi. Così nacque la leggenda dell’“eminenza grigia”. Non fu una scelta libera: Rodano rinunciò a fare politica attiva perché era cattolico e aveva deciso di rispettare, suo malgrado, la sanzione che gli era stata comminata dalle gerarchie della comunità cui si sentiva di appartenere.
Rodano per molti anni firmò i suoi articoli con pseudonimi o lasciò che uscissero anonimi. Ma i suoi rapporti con la politica e con i politici del Pci (e non solo) restarono intensi. Così nacque la leggenda dell’“eminenza grigia”
Rodano era anche convintamente comunista. Di qui l’etichetta di “cattocomunista”. In un ricordo di suo padre, Giorgio Rodano definisce il cattocomunismo come “la fusione ideologica e integralistica dell’approccio cattolico e di quello comunista”. Se accettiamo questa definizione, allora Franco Rodano non era cattocomunista. Questo perché, in tutta la sua vita, e sia pure con diversi argomenti, ha sempre rivendicato un atteggiamento laico, basato sulla netta separazione tra religione e politica.
Da giovane aveva basato quella separazione sulla distinzione, in Marx, tra materialismo dialettico (che rifiutava) e materialismo storico (che accettava). A partire dai primi anni Sessanta – con l’esperienza della “Rivista Trimestrale” diretta con l’economista Claudio Napoleoni – la critica del pensiero di Marx si fece approfondita e severa e la questione della laicità e della connessa separazione tra politica e religione venne fondata su basi nuove rispetto a quelle degli anni Quaranta. Uno dei nodi delle sue riflessioni era costituito dalla natura e dall’evoluzione storica del capitalismo, e in particolare del capitalismo moderno, così come si era venuto trasformando nella seconda metà del secolo scorso. Prendendo a prestito il titolo di un saggio di J. K. Galbraith (The Affluent Society, Houghton Mifflin, 1958), Rodano lo chiamava la “società opulenta”. Semplificando molto, si può dire che per Rodano l’assetto del capitalismo opulento era stato preceduto logicamente (e per certi versi anche storicamente) da una fase precapitalistica, che Rodano chiamava quella delle “società signorili” e poi da quella del capitalismo (non ancora opulento) dei secoli scorsi.
Nelle società signorili una minoranza (i “signori”) si appropria dei frutti del lavoro (schiavistico, o comunque servile) della maggioranza, e grazie a questo “sfruttamento” del lavoro si libera dalla necessità (di lavorare) e consegue uno status di libertà senza vincoli, se non quelli che i signori arbitrariamente pongono a se stessi. Quando l’ultima incarnazione delle società signorili, quella medievale, entra in crisi, subentra il capitalismo. Con esso viene generalizzata la trasformazione dei servi in lavoratori salariati. Questi vengono utilizzati per valorizzare il capitale (il fine della produzione diventa il profitto) promuovendone l’accumulazione, all’interno di un processo spinto dalla concorrenza tra i capitalisti. Quello in cui l’intero capitale viene continuamente e integralmente reinvestito nell’attività produttiva viene chiamato da Rodano e Napoleoni il capitalismo “puro”.
Per Marx, il processo dell’accumulazione del capitale appena descritto soffre di insanabili contraddizioni che ne compromettono radicalmente la dinamica. Rodano e Napoleoni, invece, identificano due elementi (parzialmente) stabilizzanti, che rendono il capitalismo meno “puro”, sia pure al prezzo di rallentare l’accumulazione. Si tratta della capacità delle politiche economiche (di ispirazione keynesiana) di stabilizzare l’economia attorno alla piena occupazione e, soprattutto, della grande crescita del “consumo improduttivo” dei lavoratori, a sua volta resa possibile dal fatto che, per la prima volta nella storia del capitalismo, le loro retribuzioni potevano crescere stabilmente al di sopra di quel livello di sussistenza a cui erano state ricondotte fino ad allora. Con la piena occupazione veniva meno, infatti, il ruolo depressivo esercitato dalla disoccupazione sui salari. Perciò il capitalismo opulento era anche il capitalismo caratterizzato dall’esplosione dei consumi individuali di massa.
Rodano non aveva aspettato gli shock degli anni Settanta (salari, petrolio, tassi di cambio) per criticare radicalmente il capitalismo (opulento) e per propugnare un suo radicale superamento. È il tema della necessità della rivoluzione, un’esigenza che condivideva con Marx, ma che assumeva per lui un significato profondamente diverso da quello che gli aveva assegnato l’autore del Capitale e di tanti altri scritti. Per Marx, il passaggio rivoluzionario dal capitalismo alla società comunista (mediato dalla fase della dittatura del proletariato, finalizzata allo “sviluppo delle forze produttive”) si configura come il passaggio da un “mondo della necessità”, in cui il lavoro è subordinato alle esigenze della sussistenza e al comando del capitale, a un “mondo della libertà”, in cui appunto l’attività dell’uomo (il lavoro) è in grado di esprimersi senza alcun vincolo se non quelli che si è liberamente posto, al di fuori di ogni subordinazione degli individui alle esigenze della divisione del lavoro (capitalistica).
Negli anni della loro collaborazione alla “Rivista Trimestrale” Rodano e Napoleoni erano arrivati alla conclusione che il sistema marxiano non reggeva al vaglio dell’analisi scientifica, a partire dalle insolubili difficoltà della sua teoria del valore-lavoro, che ne costituiva la struttura portante. Ma c’era di più. Le loro critiche riguardavano anche il processo rivoluzionario imperniato sulla dittatura del proletariato e sulla natura del comunismo. In particolare, Rodano era convinto che ci dovesse essere un nesso molto forte tra rivoluzione e democrazia. E soprattutto non condivideva la visione marxiana della società comunista, che comporta il passaggio dal “mondo della necessità” al “mondo della libertà”. Il comunismo di Marx, secondo Rodano, si presentava come un assetto in cui lo status riservato nella società signorile solo a pochi (grazie allo sfruttamento del lavoro di molti) fosse accessibile a tutti.
Rodano contrapponeva all’antropologia marxiana una diversa antropologia, fondata sull’idea della positività del finito, in cui i bisogni hanno una natura comune e non sono dati una volta per tutte
Rodano contrapponeva all’antropologia marxiana – per la quale l’uomo è veramente se stesso solo quando è libero dalla necessità del lavoro – una diversa antropologia. Questa – invece che sul “rifiuto del limite” e sulla “rapina dell’assoluto” (per usare due sue espressioni) – era fondata sull’idea della positività del finito, in cui i bisogni, anche quelli più schiettamente individuali, hanno una natura comune e non sono dati una volta per tutte, essendo invece suscettibili di un indefinito accrescimento. Il lavoro di soggetti che collaborano e cooperano è destinato a produrre le risorse necessarie per soddisfare i bisogni dati in ogni fase storica. Ma è anche il mezzo – data la razionalità degli uomini, la loro propensione a coordinarsi e la loro capacità di accrescerne la produttività – per consentire all’umanità di affrontare bisogni via via più complessi e ricchi. In questo quadro il “mondo della necessità” rappresenta lo stato normale della condizione umana ma ha una chiara connotazione dinamica.
Ne consegue che per Rodano l’obiettivo della rivoluzione non può e non deve essere l’impossibile realizzazione di un “mondo della libertà” (dal bisogno) esteso a tutti, ma deve essere quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono alla razionalità del lavoro di essere messa nella condizione di affrontare i nuovi e più ricchi bisogni che via via si manifestano all’orizzonte. Il che richiede – e qui ritroviamo una certa sintonia con Marx – un profondo cambiamento dell’assetto sociale e dei meccanismi economici in essere. Ma richiede anche, a differenza di Marx, che la costruzione del futuro sia affidata a meccanismi di consenso democraticamente organizzati, perché le caratteristiche della società futura non sono scritte una volta per tutte nella dialettica della storia. Ecco ancora la centralità della democrazia nel pensiero di Rodano.
Ci sono nessi evidenti tra l’antropologia che Rodano contrappone a quella di Marx e il suo essere cristiano e cattolico. C’è, per esempio, il fatto che per i cristiani il “mondo della libertà” non è immanente (l’assoluto) ma trascendente (il paradiso). C’è l’influenza del messaggio paolino di uguaglianza di tutti gli uomini: figli di Dio e fratelli in Cristo, nonché accomunati, come commenta Rodano, in una condizione di servizio. E non c’è solo questo. C’è ancora la rivendicazione con cui si apre il libro della Genesi, ossia che la natura (il creato) è “cosa buona”, giudizio che perciò si estende anche all’uomo (la prediletta tra tutte le creature). Naturalmente, nell’antropologia cristiana la bontà della natura umana deve confrontarsi con la corruzione del peccato originale e con la maledizione scagliata da Dio contro Abramo – “lavorerai col sudore della tua fronte” – che sembra inevitabilmente portare a una valutazione riduttiva del lavoro.
Così, in effetti stanno le cose in quella corrente della teologia cristiana che si sviluppa con Agostino e si radicalizza con Lutero e Calvino. Se la natura umana è corrotta e il lavoro è una maledizione, se per raggiungere la salvezza le opere non contano e ci si può affidare solo alla grazia (un dono arbitrario e insindacabile di Dio), allora lavorare laicamente per il cambiamento della società diventa impossibile. Ma c’è un altro filone del pensiero cristiano. Il suo punto di partenza non è Agostino ma ancora Paolo, quando afferma che l’incarnazione del Cristo, il suo condividere la condizione umana fino in fondo, compresa la morte, anzi fino all’estremo sacrificio della croce, ha la finalità (e l’effetto) di riscattare l’umanità dal peccato originale: come si trova scritto nel canone della messa, il suo sangue è stato versato per tutti, in modo da riscattare i loro peccati.
La valutazione degli effetti del sacrificio di Cristo consentirà, secoli dopo, a Tommaso d’Aquino di attenuare molto, rispetto alla visione di Agostino, gli effetti del peccato sulla natura umana e sul lavoro: la bontà della prima non è scomparsa del tutto, ma si è solo indebolita; e anche il secondo, l’“opera della ragione e delle mani”, viene almeno parzialmente rivalutato. Il passo successivo su questa strada verrà effettuato dai teologi gesuiti della Controriforma i quali, anche in polemica con i protestanti, rivendicheranno il valore della natura umana, intesa – commenta Rodano – come accettazione del limite; affermeranno la positività del finito (in quanto creato) e dell’essere umano (in quanto creatura), senza che sia necessario l’intervento della grazia.
A tutto questo Rodano – lo abbiamo visto – aggiungeva la qualificazione che il limite naturale non è fisso, non è dato una volta per tutte, ma evolve dinamicamente. Questo, almeno, quando il lavoro può esprimere fino in fondo la sua funzione di servizio sociale, quando cioè non viene bloccato dallo sfruttamento signorile o non viene catturato e snaturato dalla meccanica asfissiante del capitalismo. Rodano era convinto che a questa visione della natura umana e del lavoro si può arrivare per via di ragione, indipendentemente da una scelta di fede. E che perciò la politica rivoluzionaria – come superamento degli ostacoli che bloccano o rallentano la crescita naturale dell’umanità – può essere pienamente laica, indipendente tanto dall’ideologia marxiana quanto dalla teologia cristiana.
Si è detto che la terza etichetta di Rodano era quella che lo voleva inventore del “compromesso storico”, inteso sbrigativamente – come spesso accade nella pubblicistica quotidiana – come l’accordo politico tra i due grandi partiti di massa della Prima Repubblica, il Partito comunista e la Democrazia cristiana. La verità è che il compromesso storico venne proposto da Enrico Berlinguer, nel 1973, prendendo spunto dalle sue riflessioni sul golpe in Cile e sulla realtà italiana di quegli anni, percorsa dagli attentati, dalle stragi, dal terrorismo; dai sussurri e dalle grida sui tentativi di golpe. In questo clima maturò la proposta di Berlinguer, rivolta alle forze popolari di ispirazione comunista e socialista e a quelle di ispirazione cattolico-democratica, che le invitava a deporre temporaneamente le armi e a collaborare in vista di un obiettivo difensivo, ma comune e urgente, quello di salvaguardare l’assetto democratico del Paese.
Il rapporto di Rodano con Berlinguer aveva convinto quest’ultimo che le ambizioni del Pci di fare da solo erano illusorie; che comunque anche col 51% sarebbe stato impossibile governare l’Italia
Certamente il rapporto di Rodano con Berlinguer aveva convinto quest’ultimo che le ambizioni del Pci di fare da solo erano illusorie; che comunque anche col 51% sarebbe stato impossibile governare l’Italia. E così pure lo aveva convinto che per cambiare sul serio le cose in Italia erano indispensabili i contributi degli esponenti del cattolicesimo democratico (che militavano nella Dc) e di quelli del socialismo democratico (che militavano nel Psi). Ma Rodano vedeva l’incontro tra queste tre grandi forze della politica e della democrazia italiana in modo un po’ diverso, e in una prospettiva di più lungo respiro, rispetto a Berlinguer. Per Rodano, ciascuna di quelle forze veniva da una grande tradizione ed era portatrice di idee importanti sul presente e il futuro della società italiana (e non solo). Ma ciascuno dei tre partiti le viveva in modo chiuso ed esclusivo, contrapposto a quelli degli altri due. E questo finiva col compromettere la spinta propulsiva di ciascuno di essi. Per Rodano sarebbe stato necessario che tutti e tre si mettessero in gioco, si aprissero al confronto, facendo emergere quegli elementi che, opportunamente valorizzati e amalgamati, avrebbero potuto fornire alla politica le munizioni di cui aveva bisogno.
La proposta di Berlinguer dette frutti importanti – i governi di solidarietà nazionale consentirono all’Italia di attraversare le tempeste degli anni Settanta e i veleni sprigionati dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro – ma certamente non condussero alla svolta che Rodano sperava. Non è un caso, del resto, che gli anni Ottanta si siano aperti col ritorno del Pci all’opposizione. Pensando a quel che è successo dopo, tutti e tre i partiti su cui Berlinguer e Rodano avevano (sia pur diversamente) investito le loro speranze vennero travolti. Iniziava il medioevo della Seconda Repubblica. Nel frattempo, però, sia Rodano sia Berlinguer avevano lasciato questo mondo.
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