Sebbene Benedetto Croce e Giovanni Gentile abbiano dominato a lungo nella cultura del nostro Paese, soprattutto nella prima metà del Novecento, adesso sembrano relegati in una posizione marginale: di Gentile non si occupa quasi più nessuno, e l’interesse per Croce, quando si manifesta, è limitato soprattutto agli scritti storici e letterari. Eppure, Croce e Gentile hanno lasciato una traccia profonda negli studi umanistici e la loro eredità culturale pesa ancora oggi, in particolare per ciò che riguarda l’insegnamento. Come osserva Marco Santambrogio in questo bel saggio (Filosofia e storia. Viste da un filosofo parziale e pieno di pregiudizi, La nave di Teseo, 2024):
“Nei cento anni esatti trascorsi dalla riforma Gentile il ministero della Pubblica istruzione è intervenuto parecchie volte a modificare la scuola in molti suoi aspetti, anche nei programmi. Tuttavia, mai si è modificata l’impostazione di fondo per cui invece della filosofia si studia la storia della filosofia e la storia della filosofia si studia in ordine cronologico. La stessa cosa vale per le letterature e l’arte e la loro storia” (p. 35).
Santambrogio spiega questa pervasività della storia col predominio dell’ideologia storicista, promosso appunto da Croce e Gentile. Per Croce, storicismo “nell’uso scientifico della parola, è l’affermazione che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia” (p. 79). Il Vocabolario Treccani online definisce lo storicismo come un “orientamento di pensiero che mira a comprendere ogni manifestazione umana riportandola al concreto momento storico e all’ambiente in cui è emersa” (p. 35). L’adesione al punto di vista storicista ha conseguenze rilevanti per la filosofia, che diventa “il proprio tempo appreso nel pensiero”, come voleva Hegel, uno dei fondatori dello storicismo.
Questa concezione della filosofia si fonda su un’assunzione, anch’essa di origine hegeliana: nessuno può uscire dal proprio tempo più di quanto possa uscire dalla propria pelle. Ciò significa che qualsiasi prodotto culturale, un romanzo, una poesia, un dipinto, qualunque opera d’arte in generale e qualunque idea filosofica porta iscritto in sé il contesto dal quale proviene. Le teorie filosofiche vengono interamente assorbite entro la situazione che le ha prodotte, della quale risentono i limiti, senza che sia possibile valicarli. Ogni epoca, ogni fase storica ha una filosofia che le corrisponde e studiare filosofia vuol dire occuparsi di una filosofia storicamente determinata, rifacendosi al contesto che l’ha prodotta.
Così, a scuola, invece di insegnare ad affrontare e discutere problemi filosofici, si insegna la storia della filosofia. Studenti che sicuramente si appassionerebbero, per esempio, alla questione dei rapporti tra libertà e uguaglianza, oppure al problema del legame tra credenza e conoscenza, sono costretti a imparare la tiritera dell’io e il non-io nel pensiero di Fichte o le concezioni (peraltro rispettabili, ma queste sì molto “locali” e legate al loro tempo) degli hegeliani napoletani.
La critica di Santambrogio non si rivolge soltanto al modo in cui filosofia è insegnata nelle nostre scuole, ma anche al modo in cui sono insegnate arte e letteratura, ridotte, per pregiudizio storicista, a storia dell’arte e storia della letteratura. Mi sembra che su questo punto le tesi di Santambrogio siano difficilmente confutabili. Per uno storicista, per esempio, chi non conosce la storia della pittura non è in grado di apprezzare un dipinto di una certa epoca. Il che, naturalmente, è in parte vero: un dipinto di Masaccio lo comprendiamo meglio se si è al corrente della situazione della pittura nella Firenze del secolo XV, se si ha chiaro il riferimento a certe figure di santi della tradizione religiosa, se sappiamo qualcosa del suo rapporto con la pittura di Giotto ecc. Tutto ciò però non spiega perché ancora oggi, dopo secoli, siamo in grado di coglierne la bellezza. Un giapponese o un cinese che giungano in Italia possono restare sconcertati dalla quantità di scene macabre che sono rappresentate nei quadri della nostra tradizione, a principiare dalle infinite crocifissioni. E possono non comprendere il significato di gran parte dei riferimenti alla cultura religiosa che sono presenti in dipinti e opere d’arte. È assai probabile, tuttavia, che provino ugualmente una forte emozione estetica di fronte a capolavori come la folgorazione di Paolo sulla via di Damasco del Caravaggio o la battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Lo stesso vale per le opere letterarie e filosofiche: alcune attraversano i secoli e sono ancora in grado di dirci qualcosa e farci riflettere, non sono affatto assorbite senza residui dal contesto storico dal quale sono emerse.
Il ragionamento dello storicista contiene una fallacia, in quanto confonde la struttura di una determinata teoria col processo che l’ha generata, ma i fautori dello storicismo che Santambrogio menziona nel libro (Collingwood, Croce, Gentile, Eugenio Garin) sono impermeabili a questo tipo di critiche, che di solito semplicemente ignorano.
A questo proposito, un punto sul quale Santambrogio insiste è l’incapacità o la non-volontà da parte dei fautori dello storicismo di esibire argomenti convincenti per difendere le proprie posizioni. L’unico argomento sul quale insistono è che se si rifiuta la tesi storicista della radicale relatività delle posizioni filosofiche si finisce necessariamente per ammettere che vi sono verità assolute, e chi crede nell’esistenza di verità assolute assume atteggiamenti intolleranti verso chi la pensa in modo diverso. Se non si accetta lo storicismo, non per questo, tuttavia, si deve accettare l’esistenza di una “verità assoluta”. E chi accetta una verità assoluta non si vede perché debba essere intollerante. Si tratta, in entrambi i casi, di inferenze errate.
Anche se Santambrogio non richiama questo fatto, sul concetto di verità esiste una sterminata letteratura filosofica che si sviluppa a partire da Platone (si pensi al Teeteto) fino a oggi e rappresenta tutte le possibili opzioni: relativismo, assolutismo, coerentismo ecc. Come ha mostrato, per esempio, Robert Nozick nel suo Invariances, si possono pensare forme di relativismo logicamente coerenti, immuni cioè rispetto alle obiezioni che derivano dalla tradizionale domanda, se l’affermazione della relatività della verità è relativa o no. Il concetto fondamentale, ribadito da Santambrogio, è che, per avere valore filosofico, l’adesione al relativismo dev’essere giustificata e non assunta in maniera, per così dire, immediata e “ingenua”. Ma nessun aderente allo storicismo fa lo sforzo, al di là della proclamata ostilità nei confronti della “verità assoluta”, di giustificare le proprie tesi.
Vale per lo storicismo quel che Leibniz sosteneva riguardo alle sette filosofiche: per lo più hanno ragione in quel che affermano, ma torto in quel che negano
Che il contesto storico-culturale svolga un ruolo importante nella costituzione di una teoria filosofica o di un prodotto artistico, è innegabile. Ma poi, una volta che ha visto la luce, la teoria o l’opera d’arte guadagna una vita autonoma rispetto al contesto dal quale è emersa. Vale per lo storicismo quel che Leibniz sosteneva riguardo alle sette filosofiche: per lo più hanno ragione in quel che affermano, ma torto in quel che negano. Lo storicismo ha ragione a sottolineare l’importanza del contesto storico, ma torto quando nega che possano esistere verità che si situano al di fuori o al di sopra delle varie epoche storiche.
Questa posizione può avere ripercussioni profonde sull’attività stessa di uno storico. Santambrogio richiama a tal proposito le tesi di Hayden White, il quale, da aderente allo storicismo e ammiratore di Benedetto Croce, “ha sostenuto appunto che non c’è spazio per la verità nel lavoro dello storico”. Tipica dello storicismo crociano è l’affermazione che le discipline afferenti alle scienze naturali “sono lontanissime dall’arte, a cui invece la filosofia e la storia sarebbero prossime”. L’arte, però, a differenza di qualsiasi disciplina a carattere scientifico, non ha obblighi verso la verità. Infatti, Hayden White sosterrà una tesi analoga a quella secondo la quale non ci sono fatti ma soltanto interpretazioni.
Santambrogio, tuttavia, se da un lato mette in evidenza la radice crociana delle tesi di Hayden White, dall’altro ci tiene a precisare che Croce mantiene fermo il riferimento ai fatti e ai dati empirici, dei quali deve tener conto lo storico. Santambrogio non cela la sua simpatia per Benedetto Croce, per la sua nobile prosa, per le sue qualità di storico e letterato, per la difesa della libertà contro l’autoritarismo del regime fascista, ma ne riconosce, tuttavia, i limiti come filosofo. Di fronte a un autore come Spengler, per esempio, Croce difende la necessità di attenersi ai fatti e ai documenti, evitando di sostituire l’indagine rigorosa con la fantasia, non si preoccupa però di spiegare come questo atteggiamento si concili con l’assimilazione della narrazione storica all’attività artistica.
Un ulteriore aspetto negativo dello storicismo, messo in evidenza da Marco Santambrogio, è la convinzione che la conoscenza della propria storia permetta a un popolo di venire in chiaro della propria identità e che soltanto la conoscenza della propria identità permetta di addentrarsi in maniera sicura nel futuro. Il concetto di “identità” è tuttavia ambiguo e contiene numerosi “punti oscuri”:
“Ci sono nel nostro passato molte cose da cui dovremmo prendere le distanze: la schiavitù, ad esempio, lo sterminio di intere popolazioni da parte dei nostri antenati romani, lo sterminio degli eretici, le guerre di religione e, più vicino a noi, il fascismo e il nazismo. Forse che noi tutti e in particolare i figli e i nipoti di fascisti e nazisti avremmo un obbligo di fedeltà nei confronti di tutte queste cose?” (p. 132).
Per orientarci e decidere il nostro futuro, osserva Santambrogio, più che evocare la nostra identità storica, dobbiamo ricorrere alla ragione e al senso morale.
A costituire l’identità di un singolo individuo umano, per come questi la percepisce, sicuramente contribuisce, insieme ad altri fattori, anche la conoscenza del passato, ma la popolazione di una determinata nazione ha natura composita, è fatta di una pluralità di individui, appartenenti a gruppi e classi sociali diversi tra loro: è difficile che tali individui si accordino riguardo all’individuazione di caratteri identitari della nazione alla quale, in base a una mera contingenza, appartengono. Gli stessi caratteri presunti identitari, inoltre, non costituiscono alcunché di essenziale rispetto agli individui e sono frutto delle circostanze, sono anch’essi del tutto contingenti e transitori. Da questo punto di vista, lo storicismo prelude alle forme peggiori e anguste di nazionalismo.
Per orientarci e decidere il nostro futuro, più che evocare la nostra identità storica, dobbiamo ricorrere alla ragione e al senso morale
Leggendo il libro di Santambrogio si ha la sensazione di vivere in un Paese sostanzialmente arretrato per quel che riguarda l’insegnamento e lo stato generale delle cosiddette “scienze umane”. Un Paese con lo sguardo prevalentemente rivolto al passato, che tiene in quasi nessun conto la discussione filosofica che non sia mero chiacchiericcio da talk show e che manifesta una forte diffidenza verso il pensiero scientifico. Speriamo che questo libro contribuisca a cambiare questa situazione: sarebbe già molto, comunque, se suscitasse un dibattito non meramente ideologico intorno ai temi che tratta.
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