Vent’anni senza Federico Mancini, portato via da una rapida malattia il 21 luglio 1999. Eppure, appare banale dirlo, in questi anni di profonda crisi del lavoro e delle sue regole, dell’Europa, del riformismo, tante volte c’è stata occasione di rivolgersi a lui, per riflettere sui suoi scritti e trovarvi vene di pensiero capaci di illuminare il presente.

Così è in tutti campi nei quali si è misurata la sua brillante, curiosa, profonda e irrequieta intellettualità. Nel diritto del lavoro, sua disciplina accademica, nella quale ha condiviso con Gino Giugni la rifondazione del paradigma ordinamentale nel dopoguerra; nel diritto dell’Unione europea, dove come avvocato generale e poi giudice della Corte di giustizia ha dato un contributo importante al formarsi del “diritto senza frontiere”; nella politica del diritto – che poi è politica tout court – attraverso numerosissimi interventi sui più diversi strumenti di diffusione del pensiero, nell’epoca in cui circolava soprattutto attraverso gli scritti che richiedono ben più attenzione dei cinguettii o dei post, e l’attenzione di Mancini per la forma – un italiano o un inglese ineccepibile ma sempre brillante e leggibilissimo – non era mai disgiunta dal contenuto.

Ma qui vorrei ricordare, proprio nell’ambito della politica culturale, la sua partecipazione alla vita del Mulino. In coerenza con quanto previsto dall'Associazione di politica e cultura, chiamata dal suo Statuto a "perseguire, in modo non episodico, fini di studio, di formazione e orientamento dell’opinione pubblica, di impegno civile e democratico", Mancini si è attivamente impegnato in tutte le attività che hanno ruotato e ruotano attorno agli sviluppi di quella felicemente azzardata intuizione giovanile che fu la fondazione, da parte di un gruppo di amici, del "Quindicinale di informazione culturale e universitaria: il Mulino", il cui numero 1 porta la data del 25 aprile 1951: un foglio di due pagine in formato lenzuolo, che conteneva già un lungo articolo del ventiquattrenne Mancini dal titolo In attesa della legge sindacale.

La collaborazione al Mulino si snoda lungo un percorso che lo vede nel comitato di direzione della rivista per più trienni dalla fondazione alla fine degli anni Settanta

La sua collaborazione al Mulino si snoda lungo un percorso che lo vede, oltre che autore di saggi sulla omonima rivista, nel cui comitato di direzione è presente per più trienni dalla fondazione alla fine degli anni Settanta, partecipare fin dalla fondazione all'Associazione il Mulino, che presiede per un biennio alla metà degli anni Sessanta e nel cui direttivo è di nuovo rieletto nel decennio successivo. Nel 1965 presiede l’Istituto Cattaneo, ed è componente del direttivo più volte fino al 1990. Non manca infine la sua partecipazione, negli anni Sessanta, al “cuore” della casa editrice: il consiglio editoriale. Tra il 1962 e il 2004 – l'ultimo postumo – compaiono alcuni volumi, che cura direttamente, sia di scritti suoi che altrui.

I suoi contributi alla rivista spaziano da temi lavoristici, come l’indimenticabile saggio scritto assieme a Gino Giugni nel primo fascicolo del 1954, Per una cultura sindacale in Italia, ad altri di politica generale (non dimentichiamo che dal 1957 Mancini insegna Politics in contemporary Italy nella neonata sede bolognese della Johns Hopkins University), o ancora ispirati dalla sua profonda conoscenza della realtà nordamericana, maturata nel soggiorno a Chicago del 1951-52. Quel soggiorno era iniziato con il leggendario viaggio sulla nave Vulcano, sulla quale Mancini e Giugni si incontrarono casualmente, ambedue vincitori di una borsa Fullbright, futuri rinnovatori del diritto del lavoro italiano.

L’esperienza statunitense confluisce poi nella cura – sempre per i tipi del Mulino – del volume, nel 1962, Il pensiero politico nell’ età di Roosevelt, nella cui prefazione Mancini, oltre a dar prova di una conoscenza approfondita della storia e delle istituzioni di quel Paese, traccia anche un disegno che appare originale del complesso di politiche che vanno sotto il nome di New Deal. Egli accentua in particolare – in coerenza con i suoi interessi scientifici di giuslavorista – il ruolo che, nonostante le opposizioni o i reticenti appoggi, ebbe la legislazione di sostegno al sindacato – il leggendario Wagner Act – i cui meccanismi definisce come «l’eredità più cospicua […] all’America del dopoguerra». La sottolineatura dei peculiari caratteri del progressivismo americano appare tuttora illuminante per comprendere anche vicende ben più recenti di quelle degli anni Trenta, che sono l’oggetto diretto della raccolta di saggi.

Gli anni Sessanta, sino alla metà del decennio successivo, sono caratterizzati dal più intenso impegno giuslavoristico

Negli anni Sessanta e fino alla metà del decennio successivo – nel 1976 Mancini fa il suo ingresso nel Consiglio superiore della magistratura – è caratterizzato dal più intenso impegno giuslavoristico, che aveva visto peraltro le prime importanti prove negli anni Cinquanta: gli scritti più significativi sono poi raccolti giusto al chiudersi di quel periodo nel volume Costituzione e movimento operaio (Il Mulino, 1976). Vi figurano, tra gli altri, saggi che hanno cambiato la storia – ma anche la pratica – del diritto del lavoro e delle relazioni industriali in Italia, come la prolusione bolognese del 1963 sull’art. 39 della Costituzione e l’impraticabilità del meccanismo ivi previsto per l’attribuzione dell’efficacia generale ai contratti collettivi. Nella densa introduzione, Mancini disegna un ampio affresco della più recente evoluzione legislativa, nel segno del binomio che compare nel titolo del volume e si ricollega al quadro politico-culturale che a ben vedere lo caratterizza personalmente, quando afferma che lo Statuto dei lavoratori "coronò insieme una formidabile spinta di massa e l’opera paziente di alcuni intellettuali newdealisti". Nel volume compare anche l’approfondita ricostruzione dell’art. 4 Cost. sul diritto e dovere di lavorare, pubblicata originariamente nel commentario alla Costituzione diretto da G. Branca, mentre non vi compare alcuno degli scritti dell’altro celebre commentario zanichelliano, quello dello Statuto dei lavoratori, che pure Mancini considera con la prima "parte di un unico lavoro, di una stessa temperie o «stagione» personale" (così nell’ intervista a Pietro Ichino, originariamente pubblicata nella "Rivista italiana di diritto del lavoro", 1993). Altro saggio indimenticabile di quella raccolta è Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, originariamente apparso nel primo fascicolo di "Politica del diritto". Ecco l’occasione allora di ricordare, con l’appartenenza al gruppo fondante di quella rivista, un altro importante contribuito di Mancini alla vita del Mulino.

In riferimento a questo periodo, vorrei fare menzione di un’opera ingiustamente dimenticata nelle biografie di Mancini: mi riferisco all’antologia Il diritto sindacale. Saggi a cura di Giuseppe Federico Mancini e Umberto Romagnoli (Il Mulino, 1971). Opera quasi unica nel suo genere – le raccolte di scritti con finalità didattiche in materie giuridiche credo si contino sulle dita di una o al più due mani – è stata a mio avviso molto importante, dove veniva adottata, nella formazione degli studenti che si accostavano al diritto del lavoro, almeno fino alla seconda metà degli anni Settanta. Ma anche in seguito, e tutt’oggi, chi voglia avere uno spaccato della migliore letteratura in materia sui tratti fondamentali e fondanti di quello che è stato il diritto collettivo del lavoro può farvi utilmente ricorso.

Nel 1976 Mancini è eletto dal Parlamento quale componente laico del Consiglio superiore della magistratura, dove resta fino al 1981 e si avvicina più direttamente alla vita politica

Nel 1976 Mancini è eletto dal Parlamento quale componente laico del Consiglio superiore della magistratura, dove resta fino al 1981 e si avvicina più direttamente alla vita politica. Sono gli anni di piombo e Mancini riflette su temi politici, istituzionali e sociali proposti dalla violenza politica, raccogliendo alcuni suoi scritti in un volume ancora con un titolo a binomio Terroristi e riformisti (Il Mulino, 1981). Al centro vi sta, come intitola un paragrafo, Una politica per il “quinto stato”, un'idea di istituzionalizzazione del conflitto che trovi la propria base in uno “statuto per gli emarginati”. Offrire all’"universo marginale una legittimazione politico-giuridica che non ne deformi la natura e gli spazi garantiti per le lotte in cui inevitabilmente si traducono". Il liberal Mancini immagina qui di applicare alla società intera il modello di conflitto regolato che aveva visto nella l. 300 del 1970 la sua realizzazione prototipica.

Il 1982 segna l’ingresso di Mancini alla Corte di giustizia europea, nel ruolo di avvocato generale, per poi diventare giudice nel 1988, ruolo che conserverà fino alla scomparsa. Sono anni di intensa attività – che ricorda come il privilegio di "lavorare alla Corte di giustizia negli anni che videro la creazione del mercato unico e il dibattito che mise capo alle grandi promesse di Maastricht" - ma anche di profonda riflessione teorica, che si esplica in una serie di scritti, quasi tutti redatti in occasione di interventi e conferenze in prestigiose sedi internazionali – da Harvard alla London School of Economics, da Sidney ad Atene a New Orleans – comparsi prima in inglese e poi tradotti in italiano e pubblicati nel volume postumo del Mulino Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea (2004).

Qui si incontrano saggi dotati della straordinaria capacità di aiutare a formulare domande corrette sul presente e a fornire altresì elementi di risposta. Ne ricordo due soltanto: Per uno Stato europeo e L’euro: una moneta in cerca di uno Stato, legati tra loro peraltro dal filo del vivace dibattito sulle prospettive di una Europa federale, con J.H.H. Weiler. Nel primo, la tensione federalista di Mancini si esprime compiutamente e con solidi argomenti ma con una conclusione degna del carattere liberal del suo autore: "La democrazia è il fine, gli Stati […] non sono che strumenti". La realizzazione di una compiuta democrazia senza Stato non potrebbe considerarsi una sconfitta.   

Il secondo guarda al ribaltamento storico di una moneta che nasce prima e senza che uno Stato la organizzi. I rischi che questa costruzione comporta sono da Mancini passati in rassegna con grande precisione di riferimenti storici e istituzionali; dalla "combinazione del tutto insolita e rischiosa» di una politica monetaria centrale e "di differenti politiche fiscali nazionali", al profilo costituzionale dell'"imposizione di un supervisore non eletto [il Consiglio dei ministri dell’Unione] dotato del potere di controllare i bilanci". Se in futuro – ammonisce Mancini – i politici nazionali dovessero attribuire responsabilità ai banchieri centrali fino a "mettere in questione la stessa saggezza della scelta inziale di essere entrati nella Uem", essi "non centrerebbero il bersaglio», costituito piuttosto dall’"assenza di una politica economica europea in grado di armonizzarsi con la politica monetaria europea". Insomma, occorre operare "per assicurare che il potere del federalismo monetario sia bilanciato da un altrettanto potente federalismo politico".

Non è dunque un omaggio rituale sollecitare la ri-lettura di tante pagine di questo studioso, che dai suoi allievi non voleva essere appellato maestro ma capostipite, ma la cui lezione, ricordata a vent’anni dalla morte, ben si può definire magistrale.