Il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale, ancorché passato per certi versi in sordina in un’Italia vieppiù ripiegata sulla propria crisi economica, politica e sociale, è stato una proficua occasione per ripensare il passato e rileggerlo alla luce del presente. «Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», scriveva Cicerone nel De Oratore; «Those who cannot remember the past are condemned to repeat it», recita la famosissima frase, vergata all’inizio del ventesimo secolo, quasi un decennio prima dell’inizio della Grande guerra, da George Santayana.
Questa concezione strumentale della storia, intesa in primo luogo come ammaestramento, ha caratterizzato per molti secoli il lavoro dello storico, distinguendolo dall’antiquario, impegnato in erudite ricerche tutto sommato prive di utilità pratica. La storia si ripete, e le leggi che la guidano appaiono immutabili; questa condanna dell’uomo, costretto a vivere la propria esistenza in una sorta di eterna circolarità, fa sì che lo studio della storia consenta non solo di comprendere il presente, ma di intravedere – almeno in parte – il futuro. Era questa l’opinione già del grande Tucidide, per il quale la Guerra del Peloponneso sarebbe stata opera di valore eterno, proprio perché utile ad acquisire preveggenza del futuro.
La storia si ripete e condanna l’uomo a vivere in una sorta di eterna circolarità. Ciò fa sì che lo studio della storia consenta non solo di comprendere il presente, ma di intravedere, almeno in parte, il futuro
Brendan Simms, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Cambridge e autore del ponderoso Europe: The Struggle for Supremacy, from 1453 to the Present (Penguin Books, 2013), precisa alla fine della prefazione del suo volume di aver voluto comporre un’opera storica e non uno scritto profetico. Per questa ragione, scrive Simms, il volume si conclude con delle domande anziché delle predizioni. E tuttavia, precisa Simms, dovremmo «utilizzare» la storia, sia pure non come un manuale, ma come una guida alle risposte che a tali domande sono state date nel passato. «This book – afferma l’autore – is about the immediacy of the past» (p. XXVIII): almeno in questo senso l’opera di Simms rientra appieno in quella tradizione di storiografia militare, politica e diplomatica germinata sulle radici dell’immortale opera di Tucidide.
In effetti, al di là delle tesi che sostengono le oltre 700 pagine del volume, che possono essere più o meno condivisibili e che sono già state oggetto di critica – anche severa – da parte dei numerosi recensori di lingua inglese, la sensazione del lettore è di trovarsi di fronte a un’opera alquanto «all’antica», e ciò non solo a causa del riemergere di quella «utilità pratica» degli studi storici che è sostanzialmente estranea alla storiografia accademica contemporanea. Cercherò ora di spiegare perché.
[Riproduciamo qui l'incipit del "macinalibro" di Antonio Banfi pubblicato sul “Mulino” n. 1/15, pp. 5-17. L'articolo è acquistabile qui].
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