Vengo anch’io no tu no: la ricordate tutti? Il titolo divenne un tormentone, uno di quei modi di dire che entrano nel lessico collettivo e che, a distanza di decenni, molti usano senza nemmeno più sospettare che alla sua origine vi sia una canzone, l’intuizione di un poeta. Per questa canzone Enzo Jannacci fu premiato nel 1968 da un successo repentino, dopo dieci anni di gavetta. Prima ancora apparteneva a quella generazione di musicisti che si erano fatti le ossa nelle orchestrine da ballo, fra i turnisti in sala d’incisione, fra i musicisti chiamati d’urgenza a elaborare in poche ore la colonna sonora di un carosello.
Pioniere fra i pionieri della canzone d’autore, ma defilato rispetto alla prima ondata dei poeti esistenzialisti – Tenco, Endrigo, Bindi, Lauzi –, si divideva fra i rock romantici di Adriano Celentano, del quale fu sporadico accompagnatore, e quelli demenziali del sodale Giorgio Gaber, col quale debuttò in duo. Jannacci autore-cantante in palcoscenico fu imbeccato dal genio teatrale di Dario Fo che nel 1964 gli cucì addosso la regia del recital 22 canzoni. Poi, lungo tutto il resto della sua carriera, Jannacci stesso divenne il padre putativo di molte generazioni di cabarettisti: da Cochi e Renato a Massimo Boldi a Paolo Rossi.
Tutte le attività del molteplice e schizofrenico dottor Jannacci (era davvero un medico ed esercitava la professione) hanno lasciato traccia in un’opera incoerente, diversificata, dispersiva, ma geniale: un fiume in piena con mille rivoli, alcuni di ardua rintracciabilità perché nascosti, perduti, occulti. A confronto di altri risulta difficile ricostruire quest’opera e difficilissimo comunicarla: il certosino lavoro di De André è interamente racchiuso nei suoi dischi, l’affabulazione poetica di Francesco Guccini la si percepisce da un insieme di dischi, libri, testimonianze piuttosto imponente. Per Jannacci il discorso si fa assai più confusionario: la sua opera è un mare complicato da navigare, fra dischi da decenni irreperibili, ristampe che non rispettano i progetti discografici originari, re-incisioni e riletture, auto-citazioni, riscritture di proprie canzoni per affidarle ad altri interpreti (la meravigliosa e negletta La giostra, che diventa il mediocre brano La rossa cantato da Milva).
Genio e cialtrone, patafisico e dispersivo, Jannacci ha mescolato continuamente (consapevolmente?) le sue carte. Gli esordi rock-demenziali, le prime canzoni poetiche, surrealiste, inserite nel contesto più colto del cabaret milanese, il successo televisivo della canzone Vengo anch’ io no tu no e poi la precipitosa fuga da quel successo, da quella marionetta clownesca rifiutata rabbiosamente per tutta la vita. Jannacci, inoltre, dei cantautori con un certo appeal commerciale è forse l’unico che sia transitato in modo convinto per una produzione indipendente fortemente connotata in senso alternativo: mi riferisco ai ben quattro Lp per l’etichetta Ultima spiaggia nella seconda metà degli anni settanta. Tornato nell’alveo della discografia mainstream, ne è stato poco a poco emarginato, fino a ri-approdare alla produzione indipendente con Ala Bianca di Toni Verona – la stessa etichetta che ristampa il catalogo dei Dischi del Sole e ha prodotto i dischi del Club Tenco – senza nascondere alla fine la sua amarezza e un disarmante rancore, che al posto dei ringraziamenti, stampati nel libretto del disco Come gli aereoplani, gli fa dire: Enzo Jannacci non ringrazia nessuno.
Nonostante ciò, Jannacci negli ultimi vent'anni di carriera non disdegna di apparire in gara a Sanremo (1989, 1991, 1994, 1998), ed è spesso osannato ospite di alcuni fra i più popolari spettacoli televisivi, come la serata-tributo ideata da Fabio Fazio nel 2011. Questa sorta di tensione fra Enzo Jannacci, volto arcinoto dello spettacolo e il poeta surrealista cialtrone, inclassificabile e imprevedibile ha fatto sì che la sua figura continui a sfuggirci. In assenza della sua persona, di quale farfugliante lucidità, l’artista rischia di passare al fianco di tanti buffoni di regime, come una curiosità dell’avanspettacolo italiano. Se, alla fine del suo percorso – mi azzardo a dire – Jannacci non è stato trattato con il dovuto rispetto e non è stato percepito come ciò che innegabilmente era: un classico imprescindibile della canzone del Novecento, ciò è dovuto ad un mancato lavoro di sistemazione critica, di storicizzazione e più banalmente all’irreperibilità della sua discografia. E sappiamo quanto di questa incomprensione – che gli dava forse l’idea di aver disperso i suoi talenti – l’artista stesso abbia sofferto negli ultimi anni.
Oggi che Jannacci non c’è da un decennio, ancor maggiore il rischio di archiviazione e di perdita della preziosa memoria di una rara magmatica intelligenza critica, di una lezione di talento e umiltà
E ancora non valutiamo quel che ci siamo persi e ci stiamo perdendo noi. Oggi che Jannacci non c’è da un decennio, ancor maggiore il rischio di archiviazione e di perdita della preziosa memoria di una rara magmatica intelligenza critica, di una lezione di talento e umiltà. Peggio ancora, c’è il rischio del travisamento in chiave bozzettistica della Milano di Enzo Jannacci ad uso dei leghisti. Per questo è necessario un lavoro di scavo post res perditas che ci restituisca quest’opera demistificante e necessaria. La più feroce forma di censura sta nel non far sapere le cose, nello sminuire continuamente l’importanza della cultura popolare, nel rendere irreperibili le tracce del pensiero, condannandoci alla ripetizione perpetua di un segnale sempre più distante, dunque sempre più debole.
La rete di Internet, come una biblioteca di Babele caoticissima, finge di celare nei suoi scrigni tutte le ricchezze del mondo… ma, in primis non è proprio vero, inoltre ci mette nelle mani interessate dei suoi motori di ricerca, senza i quali siamo perduti e attraverso i quali siamo eterodiretti. Urge avere a disposizione quei dischi, quella galassia dispersa di interventi in programmi televisivi, radiofonici e cinematografici. Urge una biografia critica dell’uomo e dell’opera. Chissà se così, trascorso un decennio dalla morte, il tempo riuscirà a convincerci che era proprio un classico, lui che per la vita è riuscito a sfuggire a ogni classificazione, lui entrato nelle nostre case, dalla radio o dalla TV, con una risata, divertente ed inquietante.
Dacché Jannacci ha iniziato a incidere le sue canzoni, con la sua voce nei suoi dischi, si è andata a delineare la figura di un poeta-cantante sghembo e radicalmente originale: non solo diverso – tutti i grandi cantautori avevano elementi espressivi non assimilabili –, ma proprio alieno, marziano, assurdo. Però la grandezza di Jannacci sta anche nel suo respiro classico – un’orma lenta, maestosa, in contropiede rispetto alle tonnellate di follia – che negli interstizi del suo stile assurdo ha sempre depositato perle di chiarore. Mi riferisco a quel pugno di canzoni-canzoni, che farebbero l’orgoglio del repertorio di qualsiasi cantautore e che Jannacci ha regolarmente composto lungo tutto l’arco della sua carriera.Niente, E io ho visto un uomo, Chissà se è vero, Il duomo di Milano,Vincenzina e la fabbrica, Io e te, Il volatore di aquiloni, La fotografia…
Un poeta-cantante sghembo e radicalmente originale: non solo diverso – tutti i grandi cantautori avevano elementi espressivi non assimilabili – ma proprio alieno, marziano, assurdo
Titoli puramente esemplificativi: se ne possono togliere e aggiungere quanti se ne vuole, ma non si può che concludere coll’ultimo assoluto capolavoro che compendia e mette il punto d’organo finale su molti temi jannacciani, L’uomo a metà. Sono lieder senza tempo, melodie ricche, orchestrate con sapienza, cantate con pathos, sono testi di grande poesia, che diventano musica stessa del pensiero. Vi si intrecciano molti temi: l’amore, la fatica di esistere, la nostalgia del non provato, l’estraneità, la gioventù bruciata, tanto dalla violenza quanto da una stanchezza preventiva, rassegnata alla mancanza di lavoro e di futuro, e poi una specie di dolcezza che ricorda da vicino l’amore, un amore esausto. Quando Jannacci è triste in modo esplicito e non gli va per niente di scherzare, è proprio di una malinconia allucinante e senza nascondigli.
Sotto la pioggia è inutile il freno , La vita si aggiusta, ma noi non ci saremo, Guarda più in alto se c’è l’aereoplano, puzza di guerra, neanche tanto lontano … il senso di una vita fallita, smezzata, che a un passo dalla morte non riesce ancora a sentirsi completa, meno che una solitudine, io senza più te, il buco nero in fondo al tram che ha inghiottito la memoria e tutti i suoi risvolti curiosi, la donna che dormiva su una sedia di latteria, l’uomo all’angolo di via Lomellina che piange senza freno, svuotato di tutto il suo dolore e niente chiedeva, e questo la gente non se lo aspettava. E poi il suono di una banda di ottoni, una specie di chiassoso funerale che attraversa la città di Milano che fu bombardata nell’agosto del ’43, con l’acqua del Naviglio chiuso nella sua tomba, percosso da una frusta di giornali. I giornali che riportano notizie di nuove guerre, ancora puzza di guerra, per molti niente di strano. Tutto si dimentica e a nulla è servito vivere, a nulla cantare… ed ecco, tutto qui.
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