Non credo sia un caso che l’ultima opera importante di Eberhard Jüngel, Il vangelo della giustificazione come centro della fede cristiana, esca in tedesco nel 1998: il teologo scomparso due settimane or sono è in tutto e per tutto un pensatore del Novecento continentale europeo, oserei dire impermeabile ai dibattiti che animano gli anni a cavallo tra i due millenni, da quelli sulla postmodernità a quelli sul genere, al pensiero debole. Le teologie della liberazione del Terzo Mondo lo hanno influenzato poco, quelle politiche europee leggermente di più, non fosse che per la lunga amicizia personale con il collega tubinghese Jürgen Moltmann. Ma nemmeno le discussioni teologiche nordamericane del tipo di quelle intorno a George Lindbeck, che in fondo toccavano problemi in un certo senso non lontani da quelli studiati da Jüngel e coinvolgevano autori legati all’eredità di Karl Barth, lo hanno interessato: «Non ho letto abbastanza», ha semplicemente risposto a una domanda in proposito.
Presentato in questo modo, l’orizzonte intellettuale di Jüngel appare ampiamente provinciale. In realtà, utilizzando un aggettivo che non fa parte del suo vocabolario, lo si potrebbe definire «contestuale»: appunto, Jüngel ragionava all’europea e affondava le proprie radici in un tempo nel quale, in teologia, l’Europa tendeva a coincidere con la Germania e con la Svizzera tedesca. La sua grande interlocutrice è stata la tradizione umanistica del nostro continente, in una versione che oggi appare vecchissima, ma che ancora negli anni Ottanta del Novecento dominava la discussione e che passava per la mediazione di Martin Heidegger; e tra gli autori cattolico-romani, quello che in fondo l’ha influenzato di più è stato Karl Rahner, glorioso e imprescindibile fin che si vuole, ma anch’egli integralmente novecentesco. Ci si può legittimamente chiedere se e in che misura questo genere di pensiero teologico possa parlare alla Chiesa e alla società di questo terzo decennio del XXI secolo e, per rispondere, può essere utile ripercorrere lo sviluppo del pensiero del teologo testé scomparso.
Nato nel 1934, Jüngel matura nel clima plumbeo della Germania Est, in una famiglia di tradizione cristiana, ma abbastanza secolarizzata. Egli racconta che l’interesse per il cristianesimo gli viene risvegliato da una parola del Gesù giovanneo, secondo cui «la verità vi farà liberi»: l’associazione tra verità e libertà, ricorda il teologo, gli pare l’antitesi della realtà della Germania comunista, basata sull’intreccio di menzogna e oppressione. È espulso dal liceo per essersi espresso in forma giudicata irriguardosa nei confronti dello Stato e indubbiamente l’esperienza della cacciata pubblica, davanti alla scolaresca riunita, deve averlo segnato in profondità, ma anche inorgoglito. In questa circostanza, la famiglia lo sostiene.
Egli racconta che l’interesse per il cristianesimo gli viene da una parola del Gesù giovanneo, secondo cui la verità ci farà liberi: l’associazione tra verità e libertà, ricorda il teologo, gli pare l’antitesi della realtà della Germania comunista, basata sull’intreccio di menzogna e oppressione
La ragione principale della scelta di studiare teologia, secondo le dichiarazioni di Jüngel, consiste nella volontà di infastidire il padre, per nulla ecclesiastico; un fratello persegue lo stesso scopo aderendo al Partito, detestato in famiglia. La formazione teologica nella Ddr usufruisce dello stretto rapporto con la Chiesa evangelica della Germania occidentale. Jüngel riesce persino (prima della costruzione del Muro) a trascorrere un periodo di studi in Occidente, risiedendo a Zurigo, dove ascolta in particolare Gerhard Ebeling. In seguito, studierà con un altro grande heideggeriano della scuola di Bultmann, l’esegeta Ernst Fuchs. Da Zurigo, il giovane Jüngel si reca a Basilea per partecipare ai seminari di Karl Barth, conquistandone, non senza fatica, la stima (Barth era sospettoso nei confronti della provenienza «bultmanniana» del giovane). I viaggi jüngeliani, poi, si prolungano fino a Friburgo, dove Heidegger tiene le lezioni che poi saranno pubblicate con il titolo In cammino verso il linguaggio. Con ciò è tracciato il sistema di coordinate entro cui si sviluppa l’opera di Jüngel. Si tratta di un intreccio, in quegli anni più unico che raro, anche a motivo degli scontri personali tra i vari santoni della scena teologica, tra le eredità di Bultmann e di Barth. Jüngel eredita dai bultmanniani la sensibilità ermeneutica e da Barth l’idea di una teologia che si fonda sull’autorità della Parola. Essa si autoattesta, non può essere puntellata dall’esterno (e questo è il retaggio barthiano); ma lo fa al cospetto della ragione critica occidentale (e qui parla la scuola ermeneutica).
Ma un altro intreccio, anch’esso legato alle due scuole menzionate, è decisivo per Jüngel: quello tra teologia dogmatica ed esegesi storico-critica. Paolo e Gesù, la tesi di dottorato redatta sotto la direzione di Ernst Fuchs, è un libro oggi molto datato. Ma all’epoca è altamente innovativo e rappresenta un caso praticamente unico di sintesi tra due approcci che si ignoravano, oppure si avversavano. La grande libertà nei confronti delle mode teologiche consente a Jüngel di scrivere, poco dopo un’opera di teologia trinitaria, L’essere di Dio è nel divenire, in un tempo nel quale il tema è ritenuto arcaico e speculativo anche da Jürgen Moltmann, che poi ne diventerà il più celebre alfiere nella teologia occidentale.
Negli anni successivi, il teologo accetta una chiamata a Zurigo. Quando Ebeling, spaventato dal Sessantotto, lascia Tubinga, Jüngel gli subentra, entrando in quella che forse, in quegli anni, è la facoltà evangelica più vivace della Germania, con docenti come Moltmann e Käsemann, ma anche con un’interessante facoltà cattolica, nella quale brilla già l’astro di Hans Küng.
Se, da un lato, il suo è un invito a non regalare la cattolicità al Vaticano, dall’altro, esso coincide con quello delle teologie contestuali cui è ampiamente passato accanto. Egli chiede al pensiero cristiano europeo di essere tale, cioè di non fuggire troppo presto in facili esotismi
Gli anni tubinghesi fanno di Jüngel una sorta di guru della teologia evangelica europea e mondiale. Egli non avrebbe mai accettato la qualifica di caposcuola, ma indubbiamente rappresenta una voce caratteristica, molto diversa da quella dell’altro mostro sacro, il monacense Wolfhart Pannenberg: i due si stimano e condividono una certa idea della teologia accademica, ma i loro progetti teologici sono, per certi aspetti, antitetici. Quello di Jüngel giunge a maturazione in un’opera di altissimo livello: Dio, mistero del mondo. Si tratta di un dialogo con la modernità, che ha imparato a fare a meno di Dio: egli non è «necessario» per interpretare il mondo e vivere responsabilmente in esso. Jüngel, distinguendosi dalla tradizione apologetica del Novecento, da Tillich a Rahner e appunto a Pannenberg, accetta questo esito e rinuncia a una battaglia di retroguardia per sostenere la «necessità» di Dio. Non è detto, tuttavia, che ciò che non è necessario sia arbitrario sul piano teoretico e superfluo su quello pratico. Non esiste solo il livello «meno che necessario», ma anche ciò che è «più che necessario»: che non vuol dire, ovviamente, «necessarissimo», anche perché la necessità non ammette superlativo, bensì appartenente a un orizzonte di realtà superiore a quello della necessità. Esso è quello della gratuità, del dono. Antropologicamente, è l’orizzonte dell’estetico, o dell’amore. È anche l’orizzonte nel quale Dio ci incontra nella sua Parola, non necessaria, ma nemmeno superflua: donata. Attraversare la gratuità significa vivere il mistero. Mistero, diversamente dall’uso becero del linguaggio corrente, sia laico sia, purtroppo, cristiano, non è l’enigma. Quest’ultimo, se risolto, cessa di essere enigma. Mistero è invece lo svelamento che prelude a un’ulteriore conoscenza. Come l’incontro d’amore (la fenomenologia jüngeliana dell’amore è finissima), che reca pienezza solo nella misura in cui promette e apre verso un futuro ancora sconosciuto. Non perché celato in una danza dei sette veli di tipo spirituale e di dubbio gusto, ma perché il dono di Dio, qui e ora, è dono in quanto reca con sé la dimensione della promessa, del futuro.
Accanto a questo capolavoro, Jüngel interviene su molti temi dell’attualità teologica e, negli anni della Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della salvezza, fa sentire la propria voce in ambito ecumenico. Lo fa, dicevamo all’inizio, in un contesto europeo. A parere di chi scrive, la sua attualità consiste nel ricordare alle Chiese europee che essere aperte alla dimensione globale non significa evadere dalla propria problematica specifica. E quindi se, da un lato, il suo è un invito a non «regalare la cattolicità al Vaticano»; paradossalmente, dall’altro, esso coincide con quello delle teologie «contestuali» cui è ampiamente passato accanto. Egli chiede al pensiero cristiano europeo di essere tale, cioè di non fuggire troppo presto in facili esotismi, citando a buon mercato qualche profeta, reale o presunto, venuto «dalla fine del mondo», bensì di confrontarsi con la realtà del continente più scristianizzato del mondo. Certo, non lo possiamo fare limitandoci a ripetere quanto ha detto Jüngel, ma neanche senza di lui. L’orizzonte del gratuito resta sostanzialmente inedito anche per il cosiddetto postmoderno. È giusto che sia così, perché, nella sua radicalità, esso non può essere attinto da alcuna ricerca umana. Può solo essere raccontato in parabole (altro tema caro a Jüngel), come quelle dell’amore e del bello; parabole che dispiegano il loro senso profondo quando sono realmente tali, quando cioè pronunciano, nel modo loro proprio, la Parola di Dio.
Riproduzione riservata