In media gli studenti italiani vivono la scuola come un tempo la recluta viveva la naja: qualcosa di ripetitivo, burocratico, faticoso, ma non particolarmente significativo. Dalla scuola si vuole uscire al più presto (a fine giornata così come al termine del corso di studi) ricavandone quanti meno danni o fastidi possibile. Ovviamente non per tutti gli studenti è così, e non sempre; ma nella nostra scuola la prevalenza dei toni grigi è evidente. Alcuni degli usuali comportamenti degli studenti si spiegano chiaramente in questo senso. Si tratta di cose banali, ma rivelatrici. Si pensi all'uso del bagno: ogni scuola deve varare minuziosi regolamenti per evitare che le aule si svuotino a favore della toilette, primo e più naturale rifugio dalla noia e angolo di socializzazione. Una fuga d'altronde inevitabile, se nell'intera mattinata si ha un solo intervallo, in genere di non più di 10-15 minuti.
Altra spia interessante sono le gite scolastiche, vissute con terrore da molti docenti per varie e giustificate ragioni, non ultima il fatto che gli studenti in gita "si scatenano": liberi dalla routine quotidiana e dalle regole di classe, viene fuori un'effervescente joie de vivre normalmente repressa, con esiti mediamente tra l'imbarazzante e il pernicioso. Sto semplificando, ma sfido qualunque docente a dire che alle gite si va serenamente, fiduciosi della maturità e dell'interesse degli studenti.
Occupazioni, autogestioni e goliardate hanno tanto successo anche per questo: nonostante l'idealismo di alcuni, l'allure di queste proteste è nell'annullare la monotonia scolastica fatta di materie che si affastellano confusamente in orari sgangherati. La contro-prova di ciò sta nel fatto che tutte queste attività sono inevitabilmente e implacabilmente mattutine: le autogestioni pomeridiane sono un'araba fenice.
La piatta routine quotidiana ammorba tanto i docenti quanto gli studenti, ma le due categorie non sono solidali. Al contrario, c'è un'insofferenza di fondo che ogni tanto erompe (anche patologicamente, per ritornare alla cronaca). Come mai? Studenti e docenti hanno prospettive diverse e inconciliabili. Per lo studente, l'obiettivo è non prendere brutti voti per non essere bocciato. Per il docente, è produrre una batteria di voti obbligatori, possibilmente facendo imparare qualcosa ai propri allievi. La logica dello schema è chiara: poiché lo studente non vuole essere bocciato, si impegnerà a prendere buoni voti e il prof. lo promuoverà. Per i buoni voti bisogna studiare, quindi imparare, e il cerchio si chiude.
È uno schema limpido. Ma sbagliato. Con gli studenti bravi va più o meno così, ma con tutti gli altri decisamente no. Studiare è una maniera assai faticosa di prendere buoni voti. Ci sono altri modi, più "razionali" in termini di costi-benefici. Il principale è imbrogliare. Il fenomeno è dilagante, come dimostrato da Marcello Dei nel suo Ragazzi, si copia e dal successo dei siti nati per facilitare la copiatura. Il controllo contro gli imbrogli è sacrosanto e necessario, ma trasforma la classe in un'arena. Gli appelli all'onestà sono quanto di più inutile e frustrante esista: la paura di "andare male" e di "rovinarsi la media" (anche per colpa dei crediti scolastici che influiscono sull'Esame di Stato, pure a distanza di anni) prevale su tutto. E non a caso: il sistema è costruito per rinforzare la paura dei brutti voti.
Lo stesso atteggiamento si ritrova in altri comportamenti opportunistici: saltare compiti difficili, implorare di ridurre gli argomenti di studio, studiare seriamente solo dopo aver preso un'insufficienza e solo quanto basta per "recuperare il brutto voto". Alla peggio, anche fare confusione e ostacolare le lezioni paga: quanto meno il professore spiega, tanto meno ci sarà da studiare. Occorre quindi inseguire gli studenti per dargli un voto, tanto che a volte i docenti si ritrovano in seria difficoltà: se a uno studente mancano i voti nel numero prescritto, la responsabilità non sarà addebitata allo studente. Alcuni cercano di trovare un compromesso dignitoso cercando di valorizzare qualsiasi elemento positivo nella preparazione di uno studente che possa tramutarsi in un 6, rischiando però di regalare sufficienze. Altri fanno le "interrogazioni programmate", che limitano le assenze strategiche ma determinano altre storture (non ultimo il fatto che il calendario delle attività passa in gestione agli studenti).
Quel che è costante, quale che sia l'approccio usato, è l'auto-referenzialità: il docente decide da solo argomenti, criteri di valutazione e voti. In assenza di qualsiasi parametro esterno di riferimento, gli studenti sono portati inevitabilmente a personalizzare (vittimizzandosi) i giudizi e gli interventi dei docenti. Considerando che il docente è da solo anche quando deve gestire le reazioni degli studenti, è facile capire quanto sia esplosiva la situazione.
Tutto questo riguarda l'intera scuola italiana. La mia idea è che però in certe scuole la situazione sia peggiore. In genere gli studenti ritenuti meno bravi, "non all'altezza del liceo", vengono indirizzati alle scuole tecnico/professionali, dove gli esiti Invalsi sono peggiori, le bocciature più frequenti, le famiglie con alta istruzione più rare e le risorse economiche più scarse. Nondimeno, "one size fits all" nella scuola italiana: la routine quotidiana è la stessa per tutti. È probabile che laddove le difficoltà si rivelano più grandi, anche le reazioni siano più forti. Se uno studente "da liceo" può permettersi delle ripetizioni o ha familiari che possano aiutarlo, uno "da tecnico" deve arrabattarsi ricorrendo ai sistemi di cui sopra, con in più la foga di chi non ha alternative.
Se a ciò aggiungiamo che molti studenti "non da liceo" sono bollati come tali per via del comportamento, è facile che gli studenti indisciplinati si ritrovino "concentrati" nelle scuole non liceali. Ciò crea una faglia "di classe": i genitori con alto livello di studi tendono a far fare ai loro figli, anche se indisciplinati, un percorso simile al loro, lasciando le scuole tecnico-professionali agli altri. Il pregiudizio per cui le scuole non liceali avrebbero un "ambiente" peggiore viene così ad auto-avverarsi.
Si veda anche il dato Istat del 2014 sul bullismo tra i più giovani: nelle zone più disagiate "si registra la quota più elevata di vittime (23,3%) di prepotenze che avvengono con assiduità". È presumibile che il bullismo sia una spia di "cattivo comportamento" in generale, e in primo luogo nelle scuole, che sono il primo luogo di aggregazione giovanile, nelle zone disagiate come altrove.
In conclusione, dati empirici ed esperienza mi portano a pensare che la faglia di classe esista, che la scuola italiana la allarghi invece di sanarla e che i problemi comuni a tutte le scuole si aggravino in quelle più disagiate. Per uscire da questa situazione prediche o lamentele non basteranno: abbiamo bisogno, ancora e sempre, di cambiamenti strutturali e dei relativi, adeguati investimenti.
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