«Se noi vogliamo che i dipendenti dello Stato marcino a braccetto con i dipendenti della libera industria, se vogliamo che le amministrazioni pubbliche siano un campo sperimentale e una anticipazione di ciò che sarà tutta la società futura, dobbiamo far sì che gli impiegati rinuncino a forme del loro rapporto con lo Stato incompatibili coi tempi presenti».
Sembra, questo, il programma d’azione del più risoluto dei riformatori contemporanei. Qualcuno, anzi, da un certo punto di vista, potrebbe definirlo potenzialmente spregiudicato. Eppure sono parole che non hanno a che fare col tempo presente delle grandi transizioni; risalgono al 1909, alla penna di un giovane Meuccio Ruini, futuro, e autorevole, Padre Costituente.
Ne riferisce Guido Melis, in una sua recente pubblicazione (Dentro le istituzioni. Idee, giudizi, critiche, proposte, Il Mulino, 2023, pp. 240). Nella quale, peraltro, ci si imbatte in numerosissime, ulteriori suggestioni, una più sorprendente dell’altra. Un esempio ancora:
«È discutibile se il concorso serva realmente a eliminare gli incompetenti. Una selezione indubbiamente avviene con questo sistema, specialmente per quanto riguarda la coltura e la capacità in genere. Non del tutto a torto, però, si osserva che gli esami sono una prova di sapere, non di competenza, e che le lunghe e faticose preparazioni, la ingurgitazione di dottrina che richiedono gli esami, rendono poi incompetenti per tutta la vita; e più che altro sciupano una buona metà della esistenza dell’uomo per fargli imparare quello che dovrà dimenticare nell’altra metà, rendendolo spesso incapace all’azione e alla lotta».
Come si può apprezzare, non ci si trova dinanzi alla attualissima (fin troppo nota e spesso ridondante) retorica sulla pedanteria dell’intero sistema formativo nazionale e sulla necessità di promuovere, più che il sapere, il saper fare. Sono riflessioni semplici e dirette, in tutto e per tutto disincantate, di un dimenticato Cesare Cagli. Che nel 1918, dopo una lunga esperienza di dirigente pubblico, maturata sul campo, e in una delle contingenze storiche più critiche per il Paese, si domandava – alla stessa stregua di quanto ci si chiede tuttora – come si possa veicolare davvero un «rinnovamento burocratico».
Il tema faticosissimo delle riforme amministrative – come di quelle istituzionali – appartiene al novero di ciò che, in Italia, si manifesta e ritorna sempre, in qualsiasi stagione
È così, dunque: il tema faticosissimo delle riforme amministrative – come di quelle istituzionali – appartiene al novero di ciò che, in Italia, si manifesta e ritorna sempre, in qualsiasi stagione. Con la peculiarità, tuttavia, che a riproporsi non è il solo argomento, ma sono i medesimi bisogni, gli stessi sguardi e, addirittura, le correlate intuizioni o soluzioni. Il volume di Melis ne fornisce una galleria sintomatica, un «caleidoscopio». Lo definisce in questi termini proprio l’Autore, precisando che, se c’è «una morale da trarre» – da questa sorta di eterno ritorno delle questioni più spinose della cosa pubblica italiana – è che «la storia scorre, interrotta spesso da drammatiche cesure (le guerre, per esempio); ma al tempo stesso riannoda di continuo i suoi fili interrotti».
Non c’è dubbio che, nel metabolizzare le (molteplici) lezioni di questa storia – molte delle quali Melis aveva anticipato, a mo’ di pillole, nella newsletter periodica dell’Irpa (Istituto di ricerche sulla Pubblica amministrazione) – i lettori potrebbero essere indotti nella tentazione di ricadere in un altrettanto tipico vizio del carattere nazionale. Quello cui frequentemente sono attratti anche molti tra i migliori studiosi e intellettuali: il freddo, cinico riscontro di un orizzonte immutabile e di un problema irrisolvibile, con conseguente condanna della perdurante debolezza culturale di una società ancora arretrata. Del resto, neppure i più grandi, e gravi, eventi hanno cambiato lo scenario. Nulla apprendiamo e tutto resta inalterato: nell’Italia liberale, in quella fascista e in quella repubblicana.
La riforma delle istituzioni persiste nel dimostrarsi il «libro dei sogni» di cui scriveva Giorgio Ruffolo negli anni Duemila e quelli dell’amministrazione continuano a palesarsi, invariabilmente, come «Misteri dei Ministeri», secondo il titolo dell’originalissimo e atipico romanzo di Augusto Frassineti, pubblicato nel 1973, che anche Guido Melis richiama e che nel 2022 Einaudi ha avuto il merito di riproporre integralmente, specchio fedele di una visione grottesca e disorientante del potere pubblico e delle sue dinamiche interne.
C’è certamente un po’ di veleno, pertanto, nelle pagine, anche amare, che vengono citate. Al contempo, tuttavia, occorre sottolineare che ciò che trasmette la rassegna, costruita da Melis con arguzia, è un autentico tesoro; una miniera di sollecitazioni, che indicano un insieme complesso di esperienze, di insegnamenti, di rilievi. Un già fatto e già digerito, di cui ci si è scordati troppo in fretta e che, pure, agisce come un antidoto verso ogni rassegnazione e dovrebbe costituire, per ciò solo, il vademecum di qualsiasi titolare di funzioni pubbliche e, ancor prima, di qualunque forza politica. Perché l’impressione è, all’opposto, che la classe dirigente riparta sempre dal principio, come se, alle spalle, non vi fosse mai stato alcun pensiero. O, peggio ancora, come se altre classi dirigenti non si siano trovate a fronteggiare analoghe sfide.
Dell’abuso della decretazione d’urgenza, e dei mali che esso contribuisce a generare, si continua a dibattere. Ma ne discuteva già, e brillantemente, Luigi Einaudi nel 1925, in un’epoca in cui i limiti costituzionali a quel tipo di potere ancora non esistevano: leggere per credere. Quante volte, poi, si invocano, ormai quotidianamente, lo snellimento e la semplificazione? A tanti sembra che lo snodo sia tutto normativo. Renato Spaventa, invece, nel 1928, annotava come la «macchina» dell’amministrazione mal rispondesse «alle esigenze della vita» e dovesse, quindi, essere sveltita, magari agevolando l’ingresso di nuove generazioni, e nuove mentalità, nei ranghi dei dipendenti pubblici. Perché è inutile mutare le leggi se manca chi è in grado di applicarle. Periodicamente, inoltre, si accende la polemica sui rapporti tra politica e amministrazione o sul ruolo che nei gabinetti ministeriali giocano i consiglieri di Stato: è un profilo che anche De Gasperi aveva affrontato; perché non riscoprire i termini di quel discorso? In questi ultimi mesi, infine, come è noto, si discute di un cambiamento forte della forma di governo: che dire, al riguardo, dei caveat di Paolo Barile, che, al cospetto di parole d’ordine molto simili a quelle dei nostri giorni, ribadiva, nel 1965, il ruolo cruciale delle conquiste, e delle risorse, insite nella costituzione materiale del pluralismo?
Se c’è un messaggio, quindi, nel libro di Melis, è questo: guardarsi indietro è indispensabile, anzitutto per verificare se i quesiti che ci si pone e le risposte che ci si dà siano veramente nuovi o pertinenti
Se c’è un messaggio, quindi, nel libro di Melis, è questo: guardarsi indietro è indispensabile, anzitutto per verificare se i quesiti che ci si pone e le risposte che ci si dà siano veramente nuovi o pertinenti; e se non sia il caso, piuttosto, di mettersi preliminarmente alla ricerca. Per capire se, come, dove e quanto intervenire, e anche per verificare se alcuni interventi non si siano già rivelati insufficienti o poco utili o solo parziali. Cambiare significa, per prima cosa, apprendere.
Quello di Melis è anche un messaggio duplice. Giacché l’invito non è solo a studiare quanto il passato insegna o a essere informati. È un invito a scrutare nel posto giusto. Infatti, se si deve cercare qualcosa che aiuti al miglioramento delle amministrazioni e delle istituzioni in genere, è nella pancia della balena («dentro le istituzioni», per l’appunto) che si deve scavare; nell’enorme e variegato serbatoio di immagini e di rappresentazioni che chi ha vissuto la sfera pubblica ha saputo produrre, non solo a favore della contingenza, ma anche a futura memoria.
Si potrebbe andare oltre e concludere: le riforme non si possono che fare con la sapienza del corpo che devono attraversare. Sappiamo, viceversa, quanto sia diffusa e tenace la tendenza a immaginare disegni astratti, calati dall’alto, ragionati nel confronto tra i tecnici più raffinati (se va bene) o (più frequentemente) nell’incrocio disordinato di opinioni superficiali. Mentre sarebbe indispensabile comprendere che nel farsi della vita, via via più lunga, dell’amministrazione si possono scovare ammaestramenti e spunti niente affatto banali, e capaci, se valorizzati, di funzionare, tra i destinatari primi della riforma, i dipendenti pubblici, come efficace fattore di riconoscimento.
Ma nella legacy che Melis vuole tutelare e consegnare a chiunque la sappia cogliere si nasconde specialmente un finale indirizzo metodologico: le innovazioni operano effettivamente soltanto dove le conoscenze che se ne possono fare veicolo si incontrano e si spingono a vicenda. Si vuole realmente trasformare e ammodernare il Paese? Non basta far leva sulla sola forza formale dello strumento legislativo, bisogna recuperare (dalla scienza del diritto alla storia, dall’economia alla politica) tutte le idee migliori e farle lavorare assieme, senza alcun preconcetto.
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