Nel suo ultimo libro, Democrazia in diretta (Feltrinelli, 2013), Nadia Urbinati offre un nuovo, importante, contributo al dibattito sulla crisi attuale della democrazia, partendo da una rilettura delle trasformazioni che la prassi della partecipazione democratica sta vivendo in questi anni. L'utilizzo delle nuove possibilità di comunicazione offerte dal web, la richiesta di istituire forme di mandato imperativo, o la contestazione e il rifiuto della politica dei partiti potrebbero essere interpretati come richieste di democrazia diretta, oppure come un revival della democrazia partecipativa che aveva animato la contestazione alla politica istituzionale negli anni Settanta. In realtà, si tratta nuove forme di rappresentanza, connotate da una perniciosa riduzione e semplificazione della dialettica fra rappresentati e rappresentanti.
La democrazia rappresentativa, spiega Urbinati, non può essere concepita come una semplice soluzione di ripiego di fronte all'impossibilità di attuare forme dirette di partecipazione e voto. Piuttosto, è una complessa costruzione istituzionale pensata per creare uno spazio di mediazione e indirettezza fra i singoli membri della comunità politica, con i loro interessi particolari e socialmente situati, e i momenti di decisione istituzionale in cui è si esprime la comune ed eguale cittadinanza. Ciò che sta avvenendo in questi anni, in modo esemplare in Italia, ma anche in molti altri paesi europei, è l'accorciamento drastico di questo spazio di mediazione. La rappresentanza si dà ancora, ma si preme perché diventi un riversamento diretto nell'arena decisionale degli interessi e opinioni degli elettori, di cui i rappresentanti diventano solo veicoli passivi. Il web - del quale Urbinati sottolinea le enormi potenzialità per la creazione di una dialettica virtuosa fra sfera pubblica e istituzioni rappresentative - diventa invece il mero strumento attraverso cui il cittadino può esercitare un controllo inquisitorio sui politici di professione. In tutto questo i partiti, a dispetto della loro apparente "crisi", non spariscono affatto, ma si fanno conniventi della riduzione dello spazio politico di mediazione che è proprio delle forme classiche della rappresentanza. Si smarcano dal compito di promuovere progetti politici a lungo termine, per diventare "partiti-spugna", pronti a registrare gli umori immediati dei cittadini, e ad accettare la spettacolarizzazione della politica imposta dall'ansia di trasparenza dei nuovi media.
Questa illuminante analisi riposa su un ripensamento del senso e del metodo del dibattito sulla crisi della democrazia rappresentativa. Capire e analizzare le trasformazioni che la democrazia sta vivendo, e con ciò riuscire anche a intravvedere e a guidare i possibili sviluppi positivi di tali trasformazioni, richiede che innanzitutto si ripensi la "normalità" della democrazia, ossia i suoi principi portanti e il suo senso proprio. Urbinati li individua nella libertà istituita dai diritti politici, che è affrancamento dai rapporti economici e sociali, e nell'eguaglianza stabilita dal principio anti-gerarchico per il quale i diritti democratici sono distribuiti a tutti, indipendentemente dalle competenze o da qualsiasi considerazione di merito. È su questa base che si possono prendere le distanze sia dalle posizioni che tendono semplicemente a registrare i mutamenti in corso come una delle tante possibili trasformazioni del regime rappresentativo, attuando una rimozione indebita del problema, sia da quelle che prendono acriticamente atto della crisi, spesso facendola risalire a una incapacità dei regimi parlamentari di fare fronte alle nuove emergenze, non solo economiche, del nostro tempo. Quest'ultima idea, insieme alla costruzione continua di nuove emergenze, è in realtà una delle cause della crisi della democrazia: anziché ripensare la sua "normalità" come regime dell'eguaglianza e della libertà, la riduce a mero metodo per la soluzione di problemi, facilmente sacrificabile ogni qual volta lo richieda l'emergenza di turno.
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