Dal 4 gennaio 2022 il presidente della Camera potrà convocare il Parlamento in seduta comune per l’elezione del successore di Sergio Mattarella: intorno al 20 gennaio (la data più probabile pare il 22 gennaio) i mille e otto grandi elettori (i parlamentari e i 58 delegati regionali) dovranno scegliere il tredicesimo capo dello Stato repubblicano. Come noto, l’articolo 83 della Costituzione richiede, per tale nomina, quorum aggravati, al fine di dotare il nuovo presidente della più ampia legittimazione politica: nei primi tre scrutini occorre raggiungere i voti dei due terzi dei componenti del collegio (673) mentre, a partire dal quarto scrutinio, è sufficiente la maggioranza assoluta (505).

La corsa per il Quirinale – che nella storia costituzionale repubblicana è sempre stata molto complicata come è testimoniato dall’elezione di Leone che si tenne nel 1971, per la quale si resero necessari ben 23 scrutini – ha subìto una svolta largamente inattesa il 22 dicembre quando, nel corso della conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio secondo molti avrebbe lasciato intendere che accetterebbe di buon grado di servire lo Stato anche dal colle del Quirinale («sono un nonno al servizio delle istituzioni»). Tuttavia, l’eventuale elezione di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica aprirebbe un intrico costituzionale senza precedenti: prima di giurare e di pronunciare il discorso di insediamento Draghi dovrà, infatti, recarsi dal presidente Mattarella a formalizzare le proprie dimissioni, dal momento che l’articolo 84, comma 2, della Costituzione dispone che l’ufficio presidenziale sia «incompatibile con qualsiasi altra carica».

"Sono un nonno al servizio delle istituzioni": una frase pronunciate da Draghi di fronte alla stampa che è stata letta da molti come una sorta di autocandidatura al Quirinale

Le dimissioni del capo del Governo non equivalgono a quelle di uno degli altri ministri perché comportano le dimissioni dell’intero Governo e la necessità di iniziare la ricerca di un nuovo Esecutivo. Si avrebbe, dunque, la contestuale presenza di un capo dello Stato in scadenza (quindi con prerogative affievolite) e di un Governo dimissionario (quindi obbligato all’ordinaria amministrazione) guidato, per giunta, da un premier in attesa di insediarsi alla presidenza della Repubblica.  

In assenza di dettagliate norme costituzionali sulle crisi di governo, la prassi si è consolidata nel senso che, quando riceve le dimissioni del Governo da parte del Primo ministro, il presidente della Repubblica non firma subito il decreto di accettazione delle dimissioni e il Governo dimissionario rimane in carica per il «disbrigo degli affari correnti». L’articolo 1, comma 2, della l. n. 400 del 1988 (la principale legge sull’organizzazione del Governo) ha confermato questa prassi disponendo che il decreto di nomina del nuovo presidente del Consiglio sia «da lui controfirmato, insieme ai decreti di accettazione delle dimissioni del precedente Governo».

Le dimissioni del presidente del Consiglio non equivalgono a quelle di uno degli altri ministri perché comportano le dimissioni dell’intero Governo e la necessità di iniziare la ricerca di un nuovo Esecutivo

Sulle pagine di «Repubblica» Michele Ainis ha sostenuto che Draghi, una volta eletto, non potrebbe restare capo del Governo nemmeno provvisoriamente, motivo per cui il presidente Mattarella dovrebbe accettarne, con efficacia immediata, le dimissioni personali e Draghi dovrebbe restare in una sorta di limbo (non più capo del Governo, non ancora capo dello Stato) fino al passaggio di consegne. Ma, nel passato, non è mai avvenuto che il presidente della Repubblica abbia accettato le dimissioni del presidente del Consiglio separandone le sorti da quelle degli altri componenti del Governo. Inoltre, la citata legge n. 400 del 1988 prevede che la supplenza del presidente del Consiglio sia attivabile nel caso di sua «assenza o impedimento temporaneo», nulla disponendo neppure per il caso della morte del titolare. Infine, siamo sicuri che il ministro supplente possa controfirmare il decreto presidenziale di accettazione delle dimissioni del Primo ministro?

In conclusione, questa ipotesi non convince pienamente. Appare, invece, più corretto che Draghi rimanga, formalmente, alla guida del Governo, ma si autosospenda dalle funzioni, non partecipando più alle sedute dell’organo collegiale. Così facendo, potrebbe consentire che, nel periodo di transizione, un altro componente del Governo ne assuma la direzione in qualità di supplente per «impedimento temporaneo» del titolare. Quanto al prescelto, in mancanza di un vicepresidente (finora non nominato) o di una espressa disposizione del presidente, la supplenza toccherebbe (art. 8, comma 2, l. 400 del 1988) «al ministro più anziano secondo l'età» che, nell’attuale compagine governativa, è Renato Brunetta. 

Chi dovrebbe gestire una eventuale crisi del Governo Draghi e la formazione del nuovo Gabinetto? Tre sono le possibili soluzioni

Proseguendo nel tentativo di individuare il bandolo di questa intricata matassa, dobbiamo trovare risposta a un’ulteriore domanda: chi dovrebbe gestire la crisi del Governo Draghi e la formazione del nuovo Gabinetto? Tre sono le possibili soluzioni.

a)  La prima è che sia il presidente uscente a gestire la formazione del Governo che succederà all’attuale, nella pienezza dei suoi poteri prima del 3 febbraio oppure in regime di prorogatio dopo tale data. Ma affinché questa ipotesi si realizzi sembra esserci una condizione preliminare: i partiti che faranno confluire i propri voti su Draghi dovranno dichiararsi pronti a sorreggere il nuovo Esecutivo e dovranno essere d’accordo anche sul nome del nuovo presidente del Consiglio. È, infatti, impensabile che, a fronte di un quadro incerto e destinato a una lunga decantazione, il giurista Mattarella (già giudice costituzionale) accetti di gestire una crisi al buio. A ciò si deve aggiungere che, nell’eventualità in cui il nuovo Governo non riuscisse a ottenere la fiducia, il presidente uscente non potrebbe più sciogliere le Camere, essendo già entrato nel semestre bianco.

b)  La seconda alternativa è che, per evitare che sia un presidente in scadenza a gestire la crisi, Mattarella si dimetta prima del 3 febbraio, onde consentire la supplenza della presidente del Senato e lasciare che sia la seconda carica dello Stato a guidare la transizione. Si deve, peraltro, segnalare che la dottrina costituzionalistica è divisa sull’estensione dei poteri del supplente, se debba attenersi all’ordinaria amministrazione (lo ha sostenuto, tra gli altri, Baldassarre) o se possa esercitare tutti i poteri di prerogativa, sia pure nei limiti della correttezza e dell’opportunità (così Rescigno). Del tutto da escludere, invece, appare l’ipotesi che il supplente possa sciogliere anticipatamente le Camere, con un Capo dello Stato già eletto e in attesa di prestare giuramento.

c)  L’ultima opzione sul tappeto è che sia il neopresidente Draghi a condurre le trattative per la formazione del nuovo Governo e a sciogliere anticipatamente le Camere nel caso in cui non si riesca a dare vita a un nuovo Esecutivo. In questa ipotesi si porrebbe, invece, l’anomalia di un presidente della Repubblica che, ancora formalmente alla guida di un Governo dimissionario, sovraintende alla nascita del nuovo Gabinetto e sottoscrive il decreto di accettazione delle dimissioni del «proprio» Governo.

Nessuna delle tre alternative, in effetti, soddisfa completamente sul piano giuridico. Il male minore (anche guardando ai tempi medi di soluzione delle crisi di governo nel nostro Paese) sembrerebbe quello di completare al più presto il passaggio di consegne del presidente neoeletto, ponendolo nelle condizioni di poter espletare le proprie funzioni in condizione di plena potestas.

Va però infine notato che, nell’ipotesi in cui l’attuale maggioranza di unità nazionale non si limitasse a eleggere Draghi ma raggiungesse anche un accordo politico sul suo successore a Palazzo Chigi, risulterebbe preferibile l’opzione delle dimissioni anticipate dell’attuale capo dello Stato, al fine di consentire che sia il presidente del Senato (in qualità di supplente) ad occuparsi della formazione del nuovo Governo. Una volta che il decreto di nomina del nuovo presidente del Consiglio sarà stato rapidamente emanato si potrà completare il procedimento di assunzione dell’incarico del presidente entrante – rimasto, nel frattempo, in stato di sospensione –, con il suo giuramento di fronte alle Camere riunite.