Nel gennaio 2022, in uno dei suoi periodici interventi sul ruolo dello Stato nell’economia dall’evocativo titolo Beware the bossy state, l’"Economist" si è trovato a dover puntualizzare che “questo giornale crede che lo Stato debba intervenire per far funzionare meglio il mercato […]; per finanziare la ricerca scientifica che le imprese non sosterrebbero; per costruire un sistema di benefit che protegga lavoratori e poveri. Ma il suo nuovo stile bossy va molto oltre a questo. Se i suoi promotori aspirano a prosperità, equità e sicurezza, è più probabile che otterranno inefficienza, relazioni d’interesse e isolamento”. La battaglia editoriale della rivista londinese mostra plasticamente lo sconcerto degli ambienti liberal alla rottura degli argini della spesa pubblica.
È questo lo scenario da cui prende le mosse il libro di Paolo Gerbaudo Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato (Nottetempo). Un saggio di piacevole lettura, crocevia di approcci diversi, tra storia del pensiero politico, sociologia economica e politica. Il suo obiettivo non è tanto mostrare che lo Stato è oggi più rilevante che in passato – compito che apparirebbe banale – quanto invece di descrivere lo spirito dei tempi attraverso una migliore definizione di quello che è chiamato neostatalismo.
L’interpretazione di Gerbaudo appare interessante nella misura in cui l’autore illustra come il nuovo ruolo dello Stato, per quanto cresciuto, è ancora imperfetto e in via di definizione. Nella sua visione siamo infatti in un “momento di passaggio tra due diverse ere geologiche”, quella neoliberista e quella neostatalista. Il primo, tuttavia, avrebbe pressoché espresso il suo ultimo canto, in quel “tardo neoliberismo” dal sapore “autoritario e punitivo” che ha preso il nome di austerity. Di conseguenza, la disputa in corso riguarda più il profilo che il neostatalismo potrà assumere che non una possibile revanche del neoliberismo. In altre parole, secondo l’autore della Scuola Normale Superiore di Pisa “assistiamo a diversi neostatalismi che lottano per definire la nuova egemonia”.
Il nuovo ruolo dello Stato è ancora imperfetto e in via di definizione: secondo Gerbaudo siamo infatti in un “momento di passaggio tra due diverse ere geologiche”, quella neoliberista e quella neostatalista
Si tratta di uno scontro ideologico la cui posta è la ridefinizione dell’equilibrio tra Stato e mercato, tra politica, economia e società. Punto certo di questa riflessione è il carburante del neostatalismo: le paure collettive e gli enormi rischi a cui i cittadini delle economie avanzate sono sempre più esposti, dalla crisi del 2008 in poi. Appare così evidente il nesso tra ascesa del neostatalismo e le istanze emerse con il “decennio populista”, a loro volta innescate dagli effetti perversi della globalizzazione economica.
Già Dani Rodrik aveva messo in luce come i populismi potevano assumere una matrice culturale oppure economica a seconda che fossero, rispettivamente, di destra o di sinistra. Il primo tipo di populismo prende notoriamente di mira immigrati, le minoranze e gli intellettuali; il secondo, invece, attacca i ricchi e le lobby che li difendono. Gerbaudo approfondisce questa intuizione dell’economista turco cercando in maniera del tutto originale di individuarne i riflessi sull’affermazione del neostatalismo.
La lente di ingrandimento dell’autore si sofferma dunque sulle varietà di neostatalismo che emergono dalle preferenze della destra nazionalista, della sinistra socialista e anche del centro liberale. Nel primo caso, il neostatalismo è protezionista proprietario. “Il suo obiettivo principale è la protezione delle aziende nazionali contro la competizione internazionale e dei lavoratori autoctoni contro gli immigrati”. Del resto questo approccio, comune a Trump, Johnson, Le Pen, Salvini, Meloni e Orbán, presenta alcune continuità con il passato neoliberista. Esso non mette infatti in discussione la protezione dei patrimoni da possibili forme di redistribuzione e sostiene un regime a bassa tassazione.
Sul versante opposto, il neostatalismo socialista di Mélenchon, Ocasio-Cortez, di Unidas Podemos o, per certi versi, del Movimento 5 Stelle è invece protettivista. Qui “la politica della protezione si focalizza sulla sicurezza sociale e ambientale”, mentre le risorse da impiegare a questi fini dovrebbero provenire dalla tassazione delle multinazionali e dei grandi patrimoni. Più sfumata l’accezione del neostatalismo del centro liberale che si trova nella difficile condizione di non poter più utilizzare i vecchi dogmi neoliberisti ed è pertanto alla ricerca di un nuovo linguaggio che preveda, tra le parole d’ordine più tradizionali, anche la protezione dai rischi economici.
Nella sua parte centrale, il saggio adotta un taglio di storia del pensiero politico per affrontare l’evoluzione di alcuni concetti che sussumono il neostatalismo: sovranità, protezione e controllo. Anche in questo l’autore pone l’enfasi sulla lotta egemonica tra le diverse fazioni. Se il sovranismo è sempre il frutto di una chiusura verso l’esterno e della rivendicazione di una supremazia della politica sulla sfera economica, la differenza tra destra e sinistra sta nella contrapposizione tra sovranità territoriale a matrice identitaria e la sovranità popolare rispetto a quella economica. Anche la protezione, intesa come fine ultimo della sovranità, ha un significato diverso a seconda degli schieramenti politici. Qui l’autore utilizza una metafora etologica. La protezione della comunità nazionale della destra sarebbe simile a quella di un’aragosta, che si difende con un robusto carapace ma ha anche delle chele per una difesa aggressiva. Quella della sinistra assomiglierebbe invece a una specie a forte rischio di estinzione, ossia il più mite pangolino, che si difende dai predatori arricciando la dura corazza. Infine, il controllo, che nella lettura dell’autore costituisce il mezzo della sovranità. In questo caso gli opposti politici contrappongono l’enfasi sul presidio di frontiere e criminalità al controllo dell’economia.
Gerbaudo non intende il neostatalismo come un sinonimo di socialdemocrazia o di socialismo, quanto invece come “un nuovo campo di battaglia discorsivo e politico in cui emergono opzioni tanto di sinistra quanto di destra”
È bene precisare che Gerbaudo non intende il neostatalismo come un sinonimo di socialdemocrazia o di socialismo, quanto invece come “un nuovo campo di battaglia discorsivo e politico in cui emergono opzioni tanto di sinistra quanto di destra”. Lo stesso autore lascia trapelare una certa preoccupazione per il neostatalismo. Al confronto con i movimenti socialisti e i partiti social-democratici di un secolo fa, esso non è generato da forze emancipatrici che promuovono istanze di aspirazione, quanto da risposte protezioniste al sopravvenire di stati di disperazione.
In definitiva il libro costituisce una buona lettura per quanti amano riflettere sui condizionamenti lunghi che la storia esercita sugli scenari futuri. D’altra parte, risulta anche uno strumento interpretativo utile a leggere la campagna elettorale in corso, che in tempi contingentati non potrà che esaltare i messaggi semplici rispetto ai programmi complessi. Sul piano scientifico, ha invece il merito di compiere un passo in avanti rispetto agli studi sull’ascesa dei populismi portando l’attenzione sui loro effetti istituzionali. Al contempo, l’autore ha il coraggio di muovere da una tesi forte, quella che considera definitiva la trasformazione dei sistemi partitici. Per Gerbaudo siamo infatti all’inizio di una nuova “era ideologica” che, in quanto tale, ci accompagnerà per molti anni.
Si tratta dunque di una lettura audace, che richiama quella di classici della sociologia e del pensiero politico, come la grande trasformazione di Polanyi o lo storicismo idealistico di Hegel. Alcuni potrebbero tuttavia proporre due possibili contro-argomentazioni. In primo luogo, trai i vari neostatalismi potrebbe emergere anche una varietà socialdemocratica. Ciò specialmente nelle democrazie scandinave dove i partiti della sinistra hanno saputo difendersi dai populismi coltivando coalizioni sociali che tengono insieme gli interessi dei più deboli con quelli dei ceti medi progressisti. In secondo luogo, che la sfida egemonica tra neostatalismo e neoliberismo non sia affatto conclusa. Che le trasformazioni istituzionali, certamente evidenti, hanno talvolta un passo incrementale e, soprattutto, che gli interessi costituiti venderanno cara la pelle. A loro vantaggio va anche il ricettario economico predominante, ancora scevro da revisioni consistenti. Da questo punto di vista, l’incubo inflattivo che stiamo vivendo potrebbe essere interpretato come il cuneo per un ritorno alle politiche economiche monetariste, notoriamente ostili al debito pubblico; per la gioia dell’”Economist”, dei partiti del centro liberale e di nuovi, possibili, governi tecnici.
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