Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022
Al di là del gioco delle previsioni (quanto mai difficile data la frammentazione parlamentare), ogni scelta dei grandi elettori del futuro o della futura presidente della Repubblica tocca e coinvolge delicate questioni di metodo. Che hanno sostanzialmente a che fare con il modo di interpretare il profilo costituzionale riservato a questa figura, tracciato come è noto con una certa asciuttezza nella Carta del 1948. Potremmo dire che, fin dall’approvazione della Costituzione, la visione prevalente era che i poteri della presidenza fossero poco marcati, sbiaditi, approdando a tracciare una figura sostanzialmente notarile e marginale, senza ruoli politici importanti. Abbiamo spesso toccato con mano che in realtà le cose non sono andate propriamente così, nel corso ormai non breve di settantacinque anni. Nell’attuale contesto, però, è in gioco un possibile cambiamento marcato di questo profilo, o così almeno mi pare di intravedere.
Quasi sempre il sistema politico democratico ha riassorbito eventuali pressioni del presidente, oppure al contrario il presidente è riuscito a sbloccare impasse evidenti del sistema in momenti critici
Un rapido ragionamento sulla storia dell’istituzione può aiutare. È addirittura banale ricordare che nei dodici presidenti che la Repubblica ha finora avuto abbiamo visto in campo una gamma piuttosto ampia di interpretazioni del suddetto profilo e di conseguenti linee di comportamento e scelte. Varietà connesse all’origine molto diversa del mandato: maggioranze trasversali (Gronchi, Cossiga, Scalfaro, Ciampi) o maggioranze politiche (Segni, Leone, Napolitano, Mattarella). Oppure differenze connesse al modo di agire poi mostrato da ogni eletto: logica prudente e mediatoria (Einaudi, Leone, il primo Cossiga, Ciampi, Mattarella…), oppure versioni assertive e anche espansive rispetto a ruolo e poteri (Gronchi, Segni, qualche tratto di Saragat, Pertini, Cossiga versione finale, Napolitano). Tutte queste varianti – che ovviamente qui evochiamo in modo molto grezzo e iniziale – mi pare però non abbiano mai condotto a rompere il meccanismo. Quasi sempre il sistema politico democratico ha riassorbito eventuali pressioni del presidente, oppure al contrario il presidente è riuscito a sbloccare impasse evidenti del sistema in momenti critici. A conferma di un ruolo dialettico che fa parte probabilmente della sostanza dell’accordo messo su carta nel 1948 (sempre che i protagonisti ne fossero così consapevoli…). Negli anni son state usate metafore varie a questo proposito: dai «poteri a fisarmonica» alla «bussola interna al sistema» alla posizione «sopra e oltre le parti». Lungi da me voler rappresentare in modo edulcorato una storia che è stata anche storia di conflitti e di equivoci, di scelte pericolose e di trame nell’ombra, di giochi di potere e di scontri tra esseri umani e le loro ambizioni. Ci sono stati passaggi drammatici, retroscena ancora non chiari, incertezze e ambiguità sopravvissute alla loro manifestazione. Quello che però vorrei sottolineare è che la Repubblica, pur con tutte le sue fragilità generali (culturali, sociali, economiche, geopolitiche) e le sue specifiche peculiarità politiche, ha conosciuto una dinamica istituzionale in cui la limitazione e l’interdipendenza dei poteri non ha portato alla crisi permanente o alla lotta di tutti contro tutti, ma anzi, ha funzionato da meccanismo di assorbimento e metabolizzazione di crisi e incertezze. In sostanza, settantacinque anni ci hanno consegnato un modello meno estenuato e inservibile di quanto molte rappresentazioni apocalittiche ci abbiano descritto.
Ecco però che in questo frangente sta maturando una condizione nuova, che rischia di mettere le premesse di un possibile scossone. Per tre ordini di ragioni fondamentali, connesse tra loro. Da una parte, la crisi evidente della rappresentanza, con anni di fibrillazioni elettorali e mutamenti effimeri, che hanno condotto il sistema politico a perdere una stabilizzazione riconoscibile e dotata di una certa legittimazione nell’elettorato. In secondo luogo, il clima di emergenza permanente connesso agli effetti epocali della crisi finanziaria e poi alla snervante lunghezza della pandemia. Infine, la congiuntura del coagulo attorno alla figura di Mario Draghi di una sorta di riconoscibilità e visibilità come unico punto di equilibrio della stabilità del paese. Dopo la formazione all’inizio del 2021 del governo «presidenziale» di sostanziale larga convergenza politica, si è sviluppato un clima che ha permesso a Draghi di governare senza grosse scosse (e senza nemmeno scelte troppo impegnative e incisive), riscuotendo ugualmente una vasta credibilità interna e internazionale.
Il punto è che configurando l’ipotesi di traslare questo ruolo unico nella possibile elezione al Quirinale di chi si è proclamato «servitore delle istituzioni», questa somma di elementi sta producendo una dinamica di cambiamento da considerare attentamente. Tutto converge a modificare sostanzialmente il profilo della presidenza della Repubblica nell’equilibrio istituzionale. Non tanto con un ripensamento articolato del modello: il dibattito in corso da decenni a questo proposito è infinito, anche se finora non molto operativamente strutturato, ma sono poche le voci che rilancino oggi proposte di riforma giuridicamente definite. Si ipotizza piuttosto una mera evoluzione di fatto, imposta appunto apparentemente dal clima di emergenza e quindi «normalizzata». Non a caso si parla di «semipresidenzialismo di fatto» (formula usata tempo fa da Giancarlo Giorgetti, sufficientemente vaga quanto evocativa). Cioè si adombra l’attribuzione crescente al presidente non solo di ruoli di garanzia e di equilibrio, ma della funzione di attivo e fondamentale punto di riferimento di un assetto dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare, piuttosto sganciato da dinamiche rappresentative, in quanto imposto dall’emergenza e sostanzialmente dotato di una forma necessitata, quasi risposta «tecnica» alle difficoltà.
Non stupisce che si accodino a questa prospettiva una serie di voci politiche e intellettuali vagamente ascrivibili a orizzonti di destra conservatrice: il sogno della riduzione della complessità democratica attorno a una leadership forte sta in un filone tutt’altro che trascurabile della storia culturale e politica della destra italiana (in forme che hanno bordeggiato a tratti anche visioni di «golpe bianco» o di «sbrego istituzionale», seppur mai condotte a fondo). Ma il dato originale è che oggi voci analoghe sembrano venire anche da posizioni riformiste di sinistra in passato molto meno use a questo modo di ragionare. Anche da sinistra si è espressa in questi anni una simpatia per la razionalizzazione del sistema attorno a una «democrazia governante», che è passata soprattutto nella strategia di una stabilizzazione del governo parlamentare da ottenere attraverso le riforme elettorali maggioritarie. A momento – frustrata per l‘esito storico non proprio brillante di quella stagione – tale impostazione sembra si stia ricollocando sul fronte dell’auspicio di una concentrazione del potere reale nella figura del/della presidente.
Posizioni del tutto legittime, ovviamente, anche se non si capisce abbiano fatto i conti con l’oste, cioè Draghi stesso, che finora si è ben guardato dal dare qualche cenno di voler sostenere questa curvatura. A prescindere da questi aspetti soggettivi, però, a me sembra che questo modo di pensare rischi di portarci in una direzione scivolosa, ambigua e al fondo anche pericolosa. Per due motivi convergenti, di breve e medio termine.
In termini congiunturali, tale logica poterebbe a consolidare una sorta di emergenza permanente che preveda una nuova aggiuntiva dose di ridimensionamento della politica e della dialettica democratica. Non è solo e non è tanto che si costituirebbe di necessità un altro governo «fotocopia» sotto l’ombra del presidente. Ma che la ripresa di una dialettica democratica in vista delle elezioni, comunque da collocare almeno alla scadenza naturale della legislatura nel 2023, sarebbe resa più difficile. Cosa che porrebbe qualche problema, almeno nell’allontanamento ulteriore dei cittadini dalle elezioni e dal funzionamento delle istituzioni. Già la prima stagione di tentazione tecnocratica nella risposta alla devastante crisi del 2008 non ha portato benissimo agli equilibri politici della democrazia italiana, nonostante molti distratti non si fossero accorti del fossato che si scavava tra paese e istituzioni. Diciamolo in altro modo: gridare al pericolo populista e poi lavorare a una specie di imbalsamazione di un ampio «partito dell’establishment», sembrerebbe un’operazione particolarmente contraddittoria e autodistruttiva.
Gridare al pericolo populista e poi lavorare a una specie di imbalsamazione di un ampio “partito dell’establishment”, sembrerebbe un’operazione particolarmente contraddittoria e autodistruttiva
In termini più strutturali, di funzionamento delle istituzioni, tale modo di pensare porterebbe a togliere flessibilità in quel virtuoso gioco di contrappesi e di limiti reciproci che, appunto, ha mantenuto tutto sommato il sistema democratico repubblicano in una condizione accettabile per una democrazia europea contemporanea. Un presidente della Repubblica motore politico della maggioranza, condizionatore di fatto delle elezioni, identificato con un indirizzo di governo, favorirebbe o meno la riconduzione dei conflitti sociali e culturali nell’orizzonte della Costituzione? Non contribuirebbe alla prevedibile polarizzazione ulteriore del sistema? Riuscirebbe a distinguere (e a riconnettere) le scelte fondamentali del paese in orizzonte europeo e occidentale dall’indirizzo specifico di un’azione di governo mirata alla congiuntura del momento? Come sarebbe possibile ricorrere a un’istanza terza se il sistema si inceppasse in quanto a produrre una maggioranza parlamentare? Insomma, interrogativi e preoccupazioni non banali, che fanno pensare a una specie di salto nel vuoto piuttosto rischioso.
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