La storia di Atene non è certo sconosciuta per chi nutre un qualche interesse per il mondo antico, e un’attenzione speciale è da sempre riservata ai due colpi di Stato antidemocratici, quello di breve durata del 411 e quello un poco più fortunato del 404, in seguito alla sconfitta con Sparta: sono argomenti che tutti studiano a scuola, resi celebri da alcuni personaggi affascinanti (Alcibiade su tutti, ma anche Socrate che, impavido, si oppone contro tutto e tutti al processo delle Arginuse), e intorno a cui si registra un interesse costante del mercato editoriale. Data questa situazione si potrebbe dunque dubitare dell’utilità di una nuova pubblicazione: ma una lettura anche veloce del bel libro di Cinzia Bearzot (Come si abbatte una democrazia, Laterza, 2013) mostra che non è così e che una comprensione adeguata di quanto accadde nella lontana Atene non è senza interesse anche per un lettore contemporaneo.
In particolare, quello che rende il libro tanto utile è l’attenzione con cui vengono ricostruiti i dibattiti ideologici e le diverse strategie propagandistiche. Di solito, si tende infatti a nutrire qualche pregiudizio sulla coerenza del popolo democratico ateniese, impegnato nelle sue politiche imperialiste (e il giudizio di pensatori come Tucidide o Platone, sempre propensi a enfatizzarne la volubilità, non contribuiscono certo a modificare il quadro). Uno degli aspetti più interessanti del libro di Cinzia Bearzot emerge proprio nel rovesciamento di questo pregiudizio: tutt’altro che equiparabile a un gregge passivo e facilmente influenzabile, il demos ateniese era profondamente consapevole di sé e del suo potere, e non fu semplice il compito di chi voleva abbattere il regime democratico. Al contrario, proprio il fatto di esserci riusciti (soprattutto nel 411, quando ancora la guerra non era persa) depone a favore dell’abilità e dei mezzi intellettuali di molti dei congiurati. Perché, come si era riusciti a ottenere questo risultato? Non semplicemente grazie al ricorso alla violenza e ai complotti (anche se controllare i tribunali è importante!); piuttosto cercando di appropriarsi e modificare i valori e le parole chiave del mondo politico ateniese. È su questo livello apparentemente secondario che si è svolta una battaglia decisiva, che lo studio di Cinzia Bearzot ricostruisce in modo appassionante.
La strategia seguita dai congiurati non cerca improbabili prove di forza ma mira più subdolamente a sostituire il regime democratico con un regime "diversamente democratico", che viene presentato come l’espressione della "costituzione patria" (vale a dire della tradizione ateniese più autentica), come il solo governo capace di promuovere la vera "concordia" tra i cittadini e come l’unica "salvezza" di fronte a un inevitabile tracollo. E il successo di entrambi i tentativi si realizza proprio quando questi messaggi, frutto di un’accorta propaganda, riescono a imporsi e l’assemblea stessa vota la sua fine.
E i democratici? Contrariamente a quello che si pensa anche i democratici furono capaci di combattere sul piano delle idee e delle parole, riappropriandosi velocemente di quegli stessi valori che gli oligarchici sembravano aver loro strappato: la "costituzione patria" non era la vecchia formula di Solone ma la democrazia dei padri (Clistene e Pericle) che avevano fatto grande Atene nel V secolo; ed è in questa forma di governo, nella democrazia del V secolo appunto, che stava la "salvezza" della città e la possibilità di costruire una vera "concordia". Gli scontri fisici furono certo importanti; ma non meno importante fu questa battaglia per le parole, che fu condotta dall’una e dall’altra parte da figure davvero notevoli e non sempre adeguatamente apprezzate: il fascino di Alcibiade è noto a tutti, ma pochi sanno invece di Antifonte, la longa manus del colpo del 411 e un raffinato sofista, autore di sottilissime polemiche contro l’autorità della legge (così sottili che fu a lungo considerato dai critici moderni un democratico egualitarista radicale!); e ancora meno sono informati delle grandi abilità propagandistiche di Trasibulo, il generale che riuscì a reinstaurare la democrazia tanto nel 411 quanto nel 404: è di solito considerato come un guerriero impavido e generoso (una sorta di comandante partigiano, per intendersi), ma fu anche colui che più direttamente si spese per una ricostruzione dei capisaldi dell’ideologia democratica.
Sottolineare l’attualità di questi problemi è persin banale. Ma forse ne vale proprio la pena: e non solo per ricordarci che quelle che appaiono come novità del nostro tempo (la propaganda e il controllo delle masse, ad esempio) non sono per niente delle "novità", ma ancora di più per ricordare quale fu la conclusione di questa battaglia intorno alle idee e alle parole, secondo l’analisi che ne diede il più grande scrittore politico del V secolo, Tucidide. «Cambiarono a piacimento il significato delle parole»; «facendo uso di belle parole, dicevano di servire lo Stato ma lo consideravano alla stregua del bottino di una gara»: a furia di essere usate come armi per conquistare il potere, a furia di essere manipolate e violentate, le parole persero significato e non furono più in grado di comunicare niente: ogni accordo divenne impossibile e il risultato fu la guerra di tutti contro tutti, la stasis (guerra civile) che trascinava gli uomini in una condizione quasi bestiale, in cui l’unico valore rimaneva la forza: «a tal punto di crudeltà [e la parola greca usata da Tucidide allude specificamente al mangiare carne cruda delle belve] giunse questa guerra civile; … e in seguito ne fu sconvolto tutto il mondo greco». Mentre sullo sfondo la grande potenza imperiale persiana faceva il suo trionfale ritorno.
«Cose che accadono e sempre accadranno, fino a che la natura umana rimarrà la stessa, ma che si intensificano, si attenuano o prendono forma differente a seconda delle circostanze» (III 82).
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