Un tentativo di dare voce a un nuovo modo di pensare la filosofia nell’ambito dell’insegnamento e, al tempo stesso, una provocazione su alcuni aspetti del mondo della scuola che necessiterebbero di essere oggetto di riflessione e, quindi, di cambiamento: il saggio di Massimo Mugnai, Come (non) insegnare la filosofia, edito da Raffaello Cortina, è un procedere critico e determinato contro la modalità con cui oggi si fa filosofia nei licei. Pone in dialogo punti di vista, amplia lo sguardo sui sistemi scolastici e la manualistica di altri Paesi europei, mette in luce alcune debolezze del nostro sistema. Un modo di argomentare forse a volte troppo deciso e perentorio, ma che apre a considerazioni ampiamente condivisibili.
Il libro è frutto di un’osservazione pluriennale che Mugnai ha svolto durante il lungo periodo della sua permanenza alla Scuola normale superiore di Pisa: esperienza che l’ha portato a notare, col passare del tempo, una minore preparazione degli studenti diplomati al liceo che si trovano a intraprendere un percorso universitario e una generale mancanza di curiosità intellettuale, spesso abbinata a una minima propensione alla lettura. Si tratta di considerazioni generali ma che colgono alcuni punti degni di interesse, come la poca abitudine a leggere libri che oggi caratterizza la maggior parte degli studenti, unita a una difficoltà generazionale nella capacità di mantenere alta la concentrazione.
Il percorso delineato da Mugnai si articola in quattro capitoli e, dopo un’indagine sulla natura della disciplina e l’analisi di alcuni documenti ministeriali come le Indicazioni nazionali per l’insegnamento della filosofia del 2010, si concentra prima su un confronto tra i manuali scolastici più frequentemente in uso nei licei (con riferimento sia alla tradizione italiana sia a quella europea), infine su quella che potrebbe essere la struttura di un manuale ideale per l’autore: un testo che utilizzi i classici come strumento per suscitare negli studenti interrogativi e permettere loro di imparare ad argomentare su diversi temi a loro vicini.
Il libro è frutto di un’osservazione pluriennale che Mugnai ha svolto, notando una sempre minore preparazione degli studenti universitari e una generale mancanza di curiosità intellettuale, spesso abbinata a una minima propensione alla lettura
La tesi dell’autore è che la tradizione scolastica nel nostro Paese ci ha abituati a studiare e considerare la filosofia in modo storicistico, tanto che sia negli istituti superiori sia nelle università si parla abbondantemente di storia della filosofia. Mugnai a tal proposito sottolinea come questo impianto non sia legato alla visione gentiliana, come spesso erroneamente si crede, la quale «privilegiava il rapporto con i classici della filosofia, con i grandi testi della tradizione filosofica occidentale». A imporre un cambiamento significativo al modo di insegnare la filosofia ha contribuito semmai la riforma De Vecchi del 1936, per la quale «bisogna insegnare la storia della filosofia e bisogna farlo attraverso un manuale».
Al di là delle responsabilità di tale prospettiva, il limite per l’autore è che gli studenti sono chiamati a misurarsi, nell’arco del triennio del liceo, con una sequela di personalità che hanno dato un contributo alla storia del pensiero (spesso anche secondario) e che vengono studiati in modo nozionistico, lasciando poco spazio invece a quelle che dovrebbero essere le colonne portanti dello studio della filosofia, ossia la capacità di ragionare, di costruire argomentazioni e di utilizzare gli strumenti della logica e del linguaggio per affrontare temi più attuali e legati alla vita di un giovane liceale.
Abbandonare, quindi, la tradizionale prospettiva storicistica per introdurre in modo graduale una prospettiva sistematica (con annesso manuale ripensato nella nuova ottica), che ruoti attorno ai grandi temi della logica, dell’etica e della filosofia della scienza.
«La filosofia tratta di questioni che dovrebbero interessare qualsiasi essere umano, solo che nel nostro Paese uno studente non è mai messo in condizione di affrontarle direttamente: sono sempre considerate secondo la soluzione proposta da questo o quel filosofo, in un succedersi ininterrotto di opinioni che, alla fine, si annullano a vicenda. Sono convinto che, posti di fronte a problemi filosofici come la natura delle scelte o dei valori morali, la natura della verità e la nostra capacità di conoscerla, un gran numero di studenti mostrerebbe interesse e partecipazione».
Mi preme condividere una qualche riserva sull’utilizzo del «mai» che, alla pagina successiva, è seguito anche da un «nessuno» («Sarò ingenuo – scrive Mugnai – ma credo che i giovani, opportunamente guidati da un docente, provino interesse per questi temi: penso, tuttavia, che il nodo della questione risieda nel fatto che nessuno ne parla con loro in termini che li stimolino a riflettere»): credo infatti che nel nostro Paese siano diversi e numerosi i tentativi di mettere in pratica una didattica capace di suscitare interrogativi tra gli studenti, stimolarli nella riflessione sul presente e costruire un modo diverso di fare scuola.
Al netto di questo, c’è da chiedersi se la prospettiva storicistica si trovi a escludere per forza di cose il modo di fare filosofia auspicato da Mugnai e non si possa invece immaginare un insegnamento che tenga conto dell’una e dell’altro. Di tutti i nomi che costellano le pagine di un manuale di filosofia (forse sì, eccessivo e sterile sfoggio di enciclopedismo), lo spazio durante le lezioni è riservato di fatto ai più importanti. E spiegare Platone o Kant o Nietzsche, per fare alcuni esempi, non esclude la possibilità da parte del professore di soffermarsi su uno degli spunti offerti da questi pensatori e approfondirlo in chiave diacronica, sviluppando il modo in cui altri autori in epoche vicine o lontane hanno provato a riflettere sullo stesso tema. I documenti ministeriali, del resto, indicano al docente quali autori affrontare necessariamente nel corso del triennio, ma il come svolgere le proprie lezioni rientra a pieno titolo nel sacro principio della libertà di insegnamento, unita alle inclinazioni dell’insegnante e agli interessi manifestati dai ragazzi.
L’approccio auspicato da Mugnai inoltre si può ricondurre a posizioni che negli ultimi decenni hanno animato il dibattito italiano sull’insegnamento della filosofia: chi proponeva un approccio che ripercorresse la storia del pensiero contro chi avrebbe privilegiato una trattazione per temi. Ma perché scegliere? Ci si può appellare al metodo zetetico in senso kantiano (non si insegna la filosofia ma si insegna a filosofare) così come a quanto sostenuto in passato da Dario Antiseri sull’importanza di partire da problemi filosofici per affacciarsi sui temi rilevanti per il mondo giovanile, mantenendo come punto fermo i classici della filosofia che vanno letti, discussi e scoperti.
Ecco, quindi, che si arriva a un’altra questione pressante: il ruolo secondario che purtroppo la lettura dei testi occupa nella didattica. Massimo Mugnai sottolinea l’importanza che gli insegnanti dedichino buona parte delle proprie lezioni alla lettura di un classico della disciplina. Per uno studente, confrontarsi con il linguaggio e con l’argomentazione di un pensatore richiede una profonda attenzione ma è una prova intellettuale con cui un giovane deve misurarsi, dapprima con il supporto e la guida di un docente e poi in modo sempre più autonomo, dando rilievo agli interrogativi e ai commenti che le pagine suscitano. Anche in questo caso, si tratta di un’attività volta a conseguire un bagaglio culturale che diventa a sua volta il punto di partenza per un’attività filosofica in senso stretto. Studente e professore, nel leggere e commentare un’opera, sono posti di fronte alla ricchezza che può scaturire da un testo e che può portare entrambi a cercare nuovi punti di vista.
Mugnai sottolinea l’importanza che i docenti dedichino buona parte delle proprie lezioni alla lettura di un classico della disciplina: richiede una profonda attenzione ma è una prova intellettuale con cui un giovane deve misurarsi
Tra gli altri temi toccati dall’autore troviamo il tentativo diffuso di rendere pop la filosofia e l’idea che si possa filosofare su qualsivoglia aspetto della realtà, le nuove tendenze nell’organizzare la struttura e la grafica dei manuali che abbondano di immagini, colori e mappe concettuali, le numerose proposte di spiegare le teorie filosofiche attraverso il cinema. Temi nei confronti dei quali Mugnai non nasconde le sue perplessità. Spunti che andrebbero ripresi singolarmente, cercando di trovare una mediazione tra un modo ideale di fare filosofia e l’esigenza di portare la disciplina in classe, dovendo attirare l’attenzione e suscitare la partecipazione di tutti gli studenti.
È innegabile che Come (non) insegnare la filosofia sia un tentativo di dare avvio a un dibattito che coinvolga coloro che sono o aspirano a essere professori di filosofia. E, al di là delle divergenze di opinioni, a unire è proprio la risposta di Mugnai alla domanda «Perché insegnare la filosofia?», rispetto alla quale non possiamo che essere d’accordo:
«La filosofia, come quasi tutte le discipline appartenenti all’ambito umanistico, è una materia a carattere essenzialmente formativo. […] Non prepara e non abilita all’esercizio di un lavoro specifico: è insegnata perché si suppone che una persona capace di affrontare razionalmente problemi etici e gestire argomentazioni razionali in modo coerente e organizzato si muova meglio nel “mondo”, e perciò abbia una vita migliore rispetto a chi non è in grado di farlo».
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