In questa Italia sprofondata in una campagna elettorale tardo-estiva, si aggira lo spettro della critica dell’esistente. Nonostante tutto, infatti, c’è ancora qualcuno che si azzarda a immaginare un mondo un poco migliore, più giusto, pacifico, uguale e inclusivo. Anche a costo di riconsiderare i benefici di cui godono i privilegiati, e alcune ipotesi sul funzionamento della società e dell’economia che nel frattempo sono state trasformate in definizioni, assunzioni, postulati e dogmi.

È una critica, quella dell’esistente, che ancora una volta viene dai giovani – che sì, possono essere impulsivi nelle loro dichiarazioni, come se i meno giovani, specie se maschi e bianchi, non lo fossero. I giovani: grandi dimenticati nelle politiche degli ultimi decenni, sovrarappresentati tra gli astenuti al voto, i disoccupati, i precari. Proprio coloro, insomma, che hanno qualcosa da obiettare sull’ordine esistente.

Nei giorni immediatamente precedenti la presentazione delle liste dei candidati alle elezioni politiche, molti si sono cimentati in un’attività di per sé salutare in democrazia (in inglese si chiama “vetting”), una sorta di esame dei trascorsi dei potenziali candidati, alla caccia di pensieri, parole, opere e omissioni poco opportuni nel caso di un loro eventuale ruolo di servitori della patria – con “disciplina e onore”, come Costituzione prevede.

C’è ancora qualcuno che si azzarda a immaginare un mondo un poco migliore, più giusto, pacifico, uguale e inclusivo. Anche a costo di riconsiderare i benefici di cui godono i privilegiati

Tale attenzione, tuttavia, si è concentrata soprattutto su una parte politica, quella democratica e progressista; in particolare su candidati giovani che corrono, o avrebbero dovuto correre, per quella formazione, in alcuni casi in posizioni di punta e quindi con buona probabilità di risultare eletti in Parlamento. Dopo l’annuncio dei nomi, è partita la ricerca di loro dichiarazioni, specialmente “post” e “meme” sui social media, che potessero risultare compromettenti e invalidanti. Ne sono state trovate di tre categorie: sensibilizzazione alla questione palestinese e critica, anche accesa, a diversi comportamenti di Israele in violazione di norme internazionali; denuncia del livello crescente e insostenibile delle diseguaglianze socio-economiche in molte parti del mondo, a partire dall’Italia, e dell’emergere di un conflitto implicito ed esplicito fra la minoranza (l’“1%”) più ricca e il resto della popolazione; rivendicazione delle disparità di genere e dell’emarginazione delle minoranze, e necessità di un forte movimento femminista e intersezionale che proponga idee e visioni nuove per l’organizzazione della società.

Perché una così quasi esclusiva attenzione verso queste persone e le loro idee e dichiarazioni, al punto di spingere alcuni di loro a ritirare (volenti o nolenti) la propria candidatura? Forse per via di una generale avversione a posizioni estreme, potenzialmente sovversive, o magari offensive e moleste, che, seppur espresse solo via social media, potrebbero dire molto di più sul carattere, le idee e le inclinazioni sostenute da chi quelle dichiarazioni ha fatto? Tale propensione, in realtà, non si vede.

Negli stessi giorni riemergeva un video con una antica intervista a Giorgia Meloni, una dei principali pretendenti alla presidenza del Consiglio dei ministri, in cui la leader di Fratelli d’Italia, ventenne, sostiene che Mussolini è stato un ottimo politico, e che nei decenni seguenti alla sua caduta nessun altro politico si è potuto paragonare a lui. La stessa Meloni ha da poco pubblicato un video che documenta una violenza sessuale, in sprezzo di qualsiasi norma sociale di privacy e di umana decenza. Nel recente passato, altri politici noti hanno rivolto insulti omofobi, oppure hanno espresso appoggio esplicito a regimi autoritari e sanguinari, definendoli esempi di un nuovo rinascimento o dichiarandosi pronti a sostituire il nostro ordinamento con il loro. Altri ancora si sono macchiati di penosi commenti sessisti contro colleghe parlamentari. Le reazioni a questi sproloqui da parte di gran parte dei commentatori e dell’arco politico sono state inesistenti, morbide, oppure di (sorprendente) sostegno. Ma, soprattutto, da nessuna di queste persone ci si è aspettato che si dimettessero dalle loro cariche o da eventuali candidature.

Che dire allora di altre dichiarazioni, al limite dell'indecente? Spesso in questo caso le reazioni, quando ci sono, sono morbide, se non addirittura di aperto sostegno

Nulla di davvero oltraggioso, disonorevole e indecoroso pare ritrovarsi, invece, nelle dichiarazioni dei giovani democratici messi all’indice dalla stampa e dall’establishment. Le parole a proposito della questione israelo-palestinese, per certi versi senz’altro sbagliate e fuori luogo, sono subito state prese a pretesto per riaffermare l’equazione “critiche a Israele = antisemitismo”; mentre avrebbero potuto rappresentare una buona occasione per discutere nel merito le politiche dello Stato di Israele nei Territori occupati e valutare le condizioni della democrazia israeliana, anche in vista delle prossime elezioni.

Si considerino poi le denunce del livello di guardia raggiunto dalle disuguaglianze socio-economiche: riecheggiano nei lavori di alcuni dei più brillanti e ascoltati economisti contemporanei, come Thomas Piketty, Emmanuel Saez, Raj Chetty e Gabriel Zucman. Che dire poi della richiesta di una maggiore attenzione al genere e a tutte le minoranze e marginalità nella natura stessa delle politiche e nell'interpretazione della società? Un tema di vasto interesse fra sociologi, economisti, linguisti, giuristi e storici, solo per citare alcune comunità di studiosi: basti pensare al lavoro della storica di Harvard Jill Lepore sulle “verità multiple” che definiscono l’esperimento americano dall’indipendenza del 1776.

E dunque? Si tratta solo di una delle tante tempeste in un bicchier d’acqua che si susseguono sui social media e che la stampa e la Tv amplificano per qualche ora? Se così fosse, la caccia agli impresentabili avrebbe dovuto coinvolgere esponenti di diverse parti e sensibilità politiche, e non avrebbe avuto effetti pratici di rilievo. In questo caso, tuttavia, la caccia ha riguardato una precisa parte politica, anzi una specifica sensibilità al suo interno, quella più progressista. E non si è trattato di una caccia senza esito, poiché ha portato all’esclusione dalle liste elettorali di alcuni dei giovani politici coinvolti.

Difficile dunque non farsi venire il sospetto, e con esso il timore, che gli attacchi a certe posizioni e a chi le sostiene siano particolarmente efficaci perché stimolano, in buona parte dell’establishment moderato e non solo nella destra, quasi un riflesso pavloviano di ripulsa. Si tratta di quelle posizioni che intravedono, o anche solo immaginano, una qualche alternativa allo stato di cose attuale; alle disparità sempre più acute e persistenti; a un sistema che accetta aumenti spaventosi di povertà quasi con un'alzata di spalle e quel retropensiero che chi ha poco in fondo si è meritato di non avere più di quel poco; al mettere sempre avanti le ragioni economiche (spesso di una cerchia ristrettissima) di fronte a una crisi climatica che si teme irreversibile e con conseguenze disastrose, fino a negare la natura antropogenica del riscaldamento globale; al dilagare delle discriminazioni, anche con effetti mortali, basate sulla razza, il Paese di origine, il genere o l’orientamento affettivo; all’idea che un massiccio settore militare sia indispensabile, e l’unico vero antidoto contro le guerre, in un mondo in cui le guerre e le invasioni sono ovunque, anche se non tutte meritano la stessa attenzione, anzi.

Ben che vada, i sostenitori (spesso interessati) dell’idea che il sistema economico-sociale attuale sia il migliore possibile salutano queste istanze con una accondiscendente, paternalistica pacca sulla spalla, sminuendo l’entità del disagio e ricorrendo sempre alle solite idee, vecchie e stantie – siano esse gli appelli a più mercato, più energia nucleare, più armi, più “capitale umano”. O, guarda un po’ che novità, più “meritocrazia” e più “competenza”.

Ma poi, una volta che questi giovani crescono e le generazioni del G8 e del Forum Mondiale, di Occupy Wall Street e dei Fridays for Future si coalizzano, ecco, allora basta un tweet inopportuno per liberare i cani e mettere tutti al proprio posto, e per dare un segnale a quei partiti che cercano, seppur maldestramente, di incanalare queste istanze, di non sbilanciarsi, di rimanere nell’alveo di quello che l’establishment può accettare, nella difesa dell'esistente.

Antonio Gramsci definiva una cultura come egemone e una classe come dirigente non come, semplicemente, visione del mondo o gruppo sociale che effettivamente hanno più influenza o potere degli altri. L’egemonia richiede anche il riconoscimento e l’accettazione di quell’influenza e dominio anche dagli altri gruppi sociali. Forse la classe dirigente italiana si è talmente tanto abituata alla visione secondo cui non c’è alternativa possibile, che di fronte a un movimento che immagina altro, seppur non ben definito, si stringe a coorte scatenandosi contro qualsiasi “devianza”, magari anche cercando lo stesso tipo di appoggio e protezione che cercò un secolo fa: meglio un po’ di ordine e tutela per ciò che si ha, che la messa in discussione di qualche privilegio.