Insieme al caldo torrido, l’inizio dell’estate ha portato in dono alla Calabria anche la sua "rimborsopoli". Nel panorama nazionale, proprio come la calura, le spese pazze contestate dalla magistratura a esponenti del ceto politico regionale non sono né una novità né un’eccezione.

Se però altrove gli effetti delle indagini sono stati generalmente seri ma non drammatici, in Calabria sono risultati politicamente devastanti. Ciò è probabilmente da imputare non solo alla gravità delle ipotesi di reato, e ai conseguenti atti assunti dalla magistratura, ma anche alla peculiare debolezza e fragilità della classe politica regionale.

L’inchiesta, significativamente battezzata erga omnes, ha riguardato 31 tra consiglieri e assessori della passata legislatura, retta da una maggioranza di centrodestra, con a capo Giuseppe Scopelliti (decaduto dalla carica nella primavera del 2014 a causa di una condanna a sei anni per l’“allegra” gestione del Comune di Reggio Calabria, di cui era stato sindaco per due mandati). Alcuni esponenti politici di primo piano sono stati arrestati; per altri è scattato il divieto di dimora sull’intero territorio regionale. Insomma, misure pesanti che hanno squassato l’equilibrio politico dell’attuale legislatura, visto che molti degli indagati erano stati riconfermati nel loro ruolo di consigliere o erano, addirittura, diventati assessori (e presidente del Consiglio regionale, nonché parlamentari).

Dopo una partenza tutta in salita dovuta al “caso Lanzetta” (ministra del governo Renzi dimessasi perché chiamata in Calabria come assessore, ma mai entrata in carica in quanto riteneva che la propria presenza in Giunta fosse incompatibile con quella di un altro assessore, poi in effetti arrestato a seguito della rimborsopoli calabra), a soli 8 mesi dalle elezioni, il presidente della Giunta regionale, il cuperliano Mario Oliverio, è stato dunque costretto, anche su pressione del Pd romano, a nominare una nuova Giunta.

Con una classe politica regionale del tutto squalificata, e cittadini motivatamente sfiduciati (ne è prova il 56% di astenuti alle ultime elezioni regionali; percentuale arginata solo dal potere di mobilitazione delle clientele), a Oliverio non è rimasto che correre ai ripari e adottare criteri diversi da quelli (tutti politici) del passato per selezionare i nuovi assessori.

Una prima strada che sarebbe stata possibile percorrere – sperimentata con successo in altri contesti e circostanze ugualmente caratterizzati da deficit di legittimazione politica delle cariche istituzionali – era quella dell’antimafia. Una scelta tuttavia rischiosa per un territorio come la Calabria in cui, diversamente da altre aree del Paese, molti esponenti dell’antimafia, istituzionale o movimentista, non godono del sostegno e della fiducia di ampie fette dell’elettorato. Il presidente Oliverio ha dunque dovuto attingere a un’altra e ben collaudata fonte di legittimità, costituita dai portatori di un sapere tecnico. Rinverdendo la tradizione dei governi tecnici che, nelle fasi di crisi e transizione, sono stati chiamati a guidare l’Italia, il governatore ha scelto sette nuovi assessori, di cui ben cinque professori universitari esterni ai partiti. I restanti due sono, invece, dirigenti della stessa Regione Calabria, dunque ancora tecnici, ma interni alla struttura. La scelta è stata drastica, di quelle che non potevano far gioire un ceto politico “affamato” di posti di potere che aveva già dovuto subire e “gestire” la diminuzione (imposta dalla legge) da 50 a 30 dei posti in Consiglio regionale rispetto alla precedente legislatura.

Oltre che su quella accademica, il presidente della Giunta sembra aver poi puntato su un’altra, anch’essa tipica, fonte di legittimazione politica e di consenso: quella di genere. Tre dei sette assessori sono, infatti, donne (le due “interne” e una ricercatrice). Non è un caso che Oliverio abbia annunciato con le seguenti parole la composizione della rinnovata squadra di governo: “La nuova Giunta è espressione di una qualificata presenza femminile e di alte competenze universitarie calabresi”. A uno sguardo esterno questa quasi paritaria composizione di genere potrà non sembrare così rivoluzionaria. Lo è, invece, per un ceto politico regionale che, di donne, nella terzultima legislatura ne aveva solo una in Consiglio e una in Giunta; nella penultima una in Giunta e nessuna in Consiglio; nell’attuale una in Consiglio e (nella sua prima versione) nessuna in Giunta. In totale, dunque, 4 donne contro 137 uomini, pari al 3%.

Nella recente storia politica italiana, i governi tecnici, proprio perché potevano contare su una diversa legittimazione politica e operavano in un frangente di crisi, hanno avuto la possibilità di toccare equilibri di potere che gli usuali governi politici non avrebbero avuto la forza (e forse nemmeno la volontà) di “maneggiare” a causa dei costi, in termini di consenso, che da tali operazioni sarebbero certamente derivati. Operazioni che non sempre, per usare un eufemismo, sono state accolte con benevolenza dagli elettori; basti pensare al prelievo forzoso dei conti correnti operato dal governo Amato nel 1992, un episodio ancora vivo nella memoria degli italiani.

Per una regione impantanata, non solo sul piano economico, come la Calabria, una squadra di tecnici può dunque essere, se non l’ultima spiaggia, come ha notato qualche commentatore, almeno una finestra di opportunità e un punto di forza. Un punto di forza e di speranza che, però, vale solo per la contingenza della crisi e che, in maniera speculare, attesta l’endemica debolezza e inadeguatezza di un ceto politico regionale che non riesce a governare la Regione che le viene affidata. Un’incapacità testimoniata, tra le altre cose, dal perdurante commissariamento della sanità che, come si sa, è di gran lunga la prima voce di spesa (e ambito privilegiato di clientele) di ogni regione, non solo al Sud.

Insomma, a chi vive in Calabria o ne segue le vicende politiche e sociali, la Giunta dei tecnici appare come un flash, capace di gettare una luce anche intensa (perfino abbacinante), ma per uno spettro relativamente limitato. Quella che sarà poi la “normale” luminosità della politica e della società calabrese una volta esaurita questa luce artificiale dipenderà dal ceto politico e, soprattutto, al popolo cui, fino a prova contraria, in democrazia la sovranità appartiene.