Anche se si contano già quattro biografie (tutte scritte da donne), un romanzo di Daniele Del Giudice, alcuni flash come il ritratto perfido che ne fece Carlo Levi in L’orologio (1950), è come se la figura di Roberto «Bobi» Bazlen (1902-1965), sfuggisse ancora oggi a qualunque definizione critica.
Così c’era attesa per Bobi (Adelphi, 96 pp.), il profilo che Roberto Calasso (1941-2021), suo discepolo, ha tracciato in limine vitae. Calasso incontrò Bazlen nei primi anni Sessanta, nel momento in cui si stava definendo il progetto della casa editrice Adelphi che, nacque, è bene ribadirlo, dalla volontà comune di Luciano Foà e di Roberto Olivetti, figlio di Adriano. Calasso, allora uno dei due juniores insieme a Claudio Rugafiori, ebbe una singolare scuola di editoria da Bazlen che fino a quel momento aveva contribuito a fondare le Nuove Edizioni Ivrea (poi Edizioni di Comunità) con Adriano Olivetti aveva poi collaborato con Astrolabio nel Dopoguerra e con Einaudi, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, dove consolidò il rapporto con Luciano Foà, allora direttore generale della casa editrice che si avviava a diventare la più importante del nostro Novecento. Adelphi non nacque, come disse una volta Calasso, «in secca contrapposizione all’Einaudi», – per i primi vent’anni della sua vita ebbe dimensioni troppo piccole – ma ne divenne complementare, come la Boringhieri di Paolo Boringhieri, e col tempo (dagli anni Novanta?) la sostituì come termometro della nostra temperie culturale.
Calasso incontrò Bazlen nei primi anni Sessanta, nel momento in cui si stava definendo il progetto della casa editrice Adelphi che, nacque, è bene ribadirlo, dalla volontà comune di Luciano Foà e di Roberto Olivetti
Certo che Calasso, che pure era nipote di Ernesto Codignola, il fondatore della Nuova Italia, ebbe in Bazlen, nei pochi e intensi anni della loro frequentazione, una guida formidabile. Direi che prima di tutto imparò a leggere, ma forse, prima ancora, a «sbarazzarsi di tutte le idee correnti», dei grandi sistemi in cui allora veniva incasellata la nostra cultura. Scrive Calasso: «Quello che più mi importava erano i libri». Leggere è più importante che scrivere e in quella Roma, ricchissima di incontri e occasioni, il romitaggio di Bazlen, la sua non appartenenza, doveva avere per il giovane Roberto un fascino unico, irresistibile. Calasso poi si avvale di appunti inediti dell’uomo di cultura triestino, per fornire nuove notizie, ma ancora prima, per leggerlo, perché Bazlen risulta davvero un uomo fatto di libri. Lo fa naturalmente con grande acume critico, Ecco alcuni tratti: la difficoltà di scrivere con la macchina per scrivere (la meccanizzazione di un atto naturale), la scelta di vivere en artiste per abbandonare il destino segnato di chi vive in una società borghese matura (da qui anche l’intensità del rapporto con Kafka), l’impaccio (così triestino) verso la lingua italiana e invece la naturale propensione per le principali lingue europee, l’intensità del rapporto con Adriano Olivetti, compagno di avventure intellettuali e psichiche (la frequentazione con Ernst Bernhard), che arrivò ad assumerlo, pur essendogli chiaro come Bazlen fosse inadatto a qualunque routine.
Scrive Calasso: "L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi. Definibile con una frase che mi disse il giorno in cui me ne parlò – e Adelphi non aveva ancora il suo nome: 'Faremo solo i libri che ci piacciono molto'"
Scrive Bazlen: «È un mondo della morte – un tempo si nasceva vivi e a poco poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco poco vivi». Commenta Calasso: «Sono parole definitive» e forse sono una traccia, un indizio, del suo lavoro di scrittore e di editore. La figura di riferimento più autorevole che Bazlen ebbe nella cultura italiana fu Eugenio Montale. Calasso si sofferma sul necrologio che il poeta genovese pubblicò sul «Corriere della Sera» e lo smonta criticamente. Le definizioni usate da Montale restarono a lungo attaccate a Bazlen: «semplicemente un uomo a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura e della storia», oppure «un maestro di cultura sotterranea». Eh no! Per Calasso la proposta di Bazlen che si concreta nel catalogo Adelphi è esattamente l’opposto: ristabilire la carta dei valori e delle influenze culturali del Novecento. La decisione di tradurre e fornire un’edizione integrale delle opere di Nietzsche, la prima al mondo, corrisponde a questo scopo. Prosegue Calasso: «L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi. Definibile con una frase che mi disse il giorno in cui me ne parlò – e Adelphi non aveva ancora il suo nome: “Faremo solo i libri che ci piacciono molto”». Il progetto è fare un catalogo di libri unici. Più facile a dirsi che a farsi. Purtroppo, anche in questa occasione, Calasso non mette nella giusta luce gli anni di apprendistato con Luciano Foà, un vero maestro di editoria a tutto tondo: non solo nella scelta dei libri, ma anche per gli aspetti materiali, commerciali e con una libertà intellettuale almeno pari a quella di Bazlen. Quello che Calasso ha appreso dal «maestro» (parola che probabilmente non avrebbe mai usato) triestino è il concetto di primavoltità di un libro, cioè quanto di originale, unico, un libro porta con sé. Concezione non antitetica a quella di riscoperta, un tratto definitorio del catalogo adelphiano, cioè ritrovare e presentare sotto una nuova luce autori e libri che uscirono nel momento sbagliato. L’esempio che di solito si fa è Joseph Roth, già pubblicato in Italia tra le due guerre e passato inosservato, mentre dagli anni Settanta diventa il punto di partenza per il rilancio adephiano della cultura mitteleuropea; un altro esempio potrebbe essere Alberto Savinio, scrittore divenuto un classico grazie alle cure di Adelphi. La lezione in questo caso pare essere quella di sottrarsi alla dittatura del presente, o perlomeno di imparare a guardarlo da una diversa distanza. A un livello più profondo l’insegnamento di Bobi per il giovane Roberto mi pare sia stato quello di non tracciare una linea di demarcazione netta tra trascendenza e immanenza (o di nuovo tra i vivi e i morti). Calasso ha imparato da Bazlen che un uomo è vivo quando cerca, e che è quindi più importante cercare che trovare. Ora che Calasso non c’è più, bisognerebbe che spuntasse qualcuno di nuovo che sappia mettere in collegamento il mondo dei vivi col regno dei morti. Non sarà facile.
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