Nel 1992, quando già aveva pubblicato la sua straordinaria opera in sei volumi sulla storia del colonialismo italiano (quattro su Gli italiani in Africa Orientale, 1976-1984, e due su Gli italiani in Libia, 1986-1988), Angelo Del Boca osservava: «Una famiglia su dieci in Italia possiede sicuramente un oggetto di provenienza coloniale […] Su questo immenso museo privato, da mezzo secolo si deposita la polvere. Lo stesso avviene sui ricordi, le certezze, i dogmi della stagione coloniale […] L’uomo è andato sulla Luna e si è impadronito dei segreti dell’atomo, ma per una parte non infima degli italiani il passato africano si è come pietrificato, e non c’è revisione critica che possa scalfirlo».
È questo carattere di massa, o comunque esteso, della partecipazione degli italiani all’espansione coloniale, e quindi alla sua memoria o non memoria, che muove la ricerca di Del Boca e che lo ha reso il primo grande studioso del colonialismo italiano del tempo della nostra Repubblica. Prima di lui, al tempo dell’Italia liberale e poi del fascismo, c’erano stati gli storici coloniali: spesso funzionari del ministero delle Colonie, o comunque convinti sostenitori della bontà del dominio coloniale. L’aggettivo della definizione (storici coloniali) li qualificava non solo rispetto all’oggetto dello studio ma anche rispetto al loro giudizio.
In confronto a questi, Angelo Del Boca (1925-2021) era diverso. Aveva conosciuto il fascismo da una città della provincia piemontese. All’entrata in guerra dell’Italia mussoliniana è un ragazzo quindicenne. Quando dopo l’8 settembre 1943 si installa la Repubblica sociale italiana è un diciottenne, e in armi va ad addestrarsi in Germania con quella che avrebbe poi dovuto essere la Divisione Monterosa: ma tornato in Italia lascia e passa alla Resistenza antifascista, andando a fare il partigiano sulle montagne del Piacentino.
Finita la guerra e aiutato il Paese a conquistare la democrazia, Angelo Del Boca è ormai un giornalista di area socialista, uno scrittore di racconti, e si fa strada nel mondo della comunicazione. Per la «Gazzetta del Popolo», il giornale torinese diverso da «La Stampa» della Fiat e di Valletta, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, è anche più volte inviato speciale, fra l’altro visitando i Paesi africani in via di decolonizzazione. L’antifascismo, però, non l’aveva mai abbandonato: nel 1965, con l’amico Mario Giovana, e con una rete internazionale di corrispondenti, pubblica I figli del sole: mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, un’inchiesta di grande interesse. Insomma, Angelo Del Boca davvero aveva poco a che spartire con gli storici coloniali del fascismo.
Ciononostante, come dicevamo, era convinto che gli italiani avessero un problema con il loro passato coloniale. Non solo gli italiani, ovviamente: il colonialismo era stata un’esperienza europea durata mezzo millennio (quando scriveva ancora non finita). Ma qualche peculiarità doveva esserci, se uno storico come Renzo De Felice considerava la guerra d’Etiopia il «capolavoro del consenso» del fascismo, se tanti italiani (sia pur costretti dal regime) avevano donato il proprio oro e le proprie fedi nuziali alla patria proprio nel 1935-1936 e se, ancora trent’anni più tardi, quando nel 1966 Del Boca raccoglie in volume alcune corrispondenze giornalistiche su La guerra d’Abissinia 1935-1941, l’autore viene subissato di critiche di parte dei circoli nostalgici combattentistici perché denigratore antinazionale.
Oggi, purtroppo, Del Boca è ricordato da molti quasi solo per la sua opera di denuncia dei crimini coloniali italiani. In effetti, la documentazione che aveva rintracciato negli archivi dei telegrammi fra Benito Mussolini e Rodolfo Graziani circa l’uso dei gas (un tema sistematicamente studiato da Giorgio Rochat nel 1973 e nel 1988) era inequivoca: il fascismo aveva utilizzato, prima nelle colonie e poi nella guerra contro l’Etiopia, armi di distruzione di massa vietate dalle stesse convenzioni internazionali che il governo mussoliniano aveva siglato. Attorno a questo punto Del Boca seppe portare l’attenzione dell’opinione pubblica. Così come all’opinione pubblica sapeva parlare quando la Repubblica, indecisa, non restituiva l’obelisco di Axum, o quando nei primi anni Novanta, incerta, assisteva alle operazioni militari italiane in Somalia, così come era stata sconcertata dalla catastrofe della politica italiana di cooperazione allo sviluppo con l’Africa; o infine, più tardi, quando guardava sgomenta i barconi dei migranti affondare nel Mediterraneo.
In tutti questi casi, lo studioso italiano interpellato dai mass media, sempre documentato e informato (è stato per decenni lettore quotidiano di testate come «Le Monde» o «Jeune Afrique») era sempre lui, Del Boca. Quindi ha certamente ragione chi oggi lo ricorda come chi «scoprì i nostri crimini in Africa e li denunciò», come ha ragione pure chi invece rammemora il duello pubblico e mediatico consapevolmente ingaggiato con Indro Montanelli, che quell’uso di gas a lungo aveva negato; o la sua lunga personale battaglia contro ogni riproposizione del mito degli «italiani brava gente»: ma questo versante «polemico» fu davvero solo una parte della vita di Angelo Del Boca. Un’area che guarda alla storiografia come a un’attività militante ha addirittura fatto di lui una sorta di indignado. È un’attitudine al tempo stesso comprensibile, visto i meriti di Del Boca nel rammentare pubblicamente aspetti che il carattere nazionale degli italiani vorrebbe dimenticare, ma non può racchiudere una vita. Di più: visto che i suoi contraddittori hanno spesso cercato di indebolirne le pubblicazioni o le prese di posizioni definendolo uomo di parte e di fazione, e non di verità, continuare a vedere Del Boca solo come denunciatore e polemista sarebbe sbagliato. La sua vita contiene molto di più.
Ci si dovrebbe chiedere perché i suoi volumi erano dedicati a Gli italiani in Africa Orientale o a Gli italiani in Libia, laddove già nel titolo quell’insistenza non sui governi o sulla classe politica ma sugli italiani aveva un senso. Erano volumi che non facevano sconti alla classe politica del tempo, ma in ogni capitolo c’era un paragrafo sugli italiani, sulla massa degli italiani ordinari e sul loro coinvolgimento nel meccanismo coloniale. Non erano volumi solo sulla politica di Crispi o Mussolini: erano studi che cercavano di rispondere a come era possibile che gli italiani apprezzassero, collaborassero, cercassero guadagni da quel dominio razziale di bianchi su neri che era stato il colonialismo europeo (e quindi anche italiano).
La citazione da cui siamo partiti è tratta dalle prime righe di un suo altro volume, sempre in questo senso: L’Africa nella coscienza degli italiani. Non solo, e diremmo quasi non tanto, denunciatore di crimini di dittatori e generali: ma rispettoso, attento, quasi accorato studioso di come tante italiane e tanti italiani avessero finito per essere coinvolti. Il lancio dei gas asfissianti o venefici era stato deciso da Mussolini, Badoglio o Graziani: ma era operato da tanti italiani ordinari… L’ex partigiano e l’antifascista che si era chiesto come tanti italiani continuassero a stare dalla parte del fascismo anche quando la Germania nazista e la Rsi stavano perdendo la guerra non poteva d’altronde non essere interessato alla questione che tanti italiani avevano «fatto» il colonialismo italiano: ovviamente sapeva benissimo che le responsabilità salgono man mano che si procede in su nella gerarchia politica e sociale, ma non per questo poteva considerare anche rispetto al colonialismo gli italiani tutti brava gente.
Per tante ragioni, quindi, Angelo Del Boca – che fra gli anni Settanta e Ottanta diede agli italiani e alla storiografia italiana i volumi più importanti, ancora oggi fondamentali, per capire cosa l’Italia liberale, quella fascista e poi quella repubblicana avevano fatto in Africa e in particolare nei territori dominati dagli italiani – non poteva essere come gli storici coloniali del tempo del regime. Anzi, in quei decenni, non era nemmeno come gli storici della Repubblica: gli storici africanisti o erano vecchi colonialisti (e quindi apologeti) o erano legittimamente interessati alle sole popolazioni africane, e quindi poco interessate alle dinamiche italiane; gli storici contemporaneisti non studiavano la politica coloniale. I grandi volumi di ricostruzione storica di Del Boca (quelli su Gli italiani in Africa Orientale o su Gli italiani in Libia) erano i primi, sul tema, dopo quelli degli storici coloniali fascisti. La notorietà pubblica del loro autore venne poi da testi successivi, anche più critici o polemici, talora pesino divulgativi, che attrassero l’attenzione dell’opinione pubblica per i dibattiti che attorno ad essi si svilupparono: da I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia (1996) a Italiani, brava gente? (2005), da La disfatta di Gasr Bu Hàdi. 1915: il colonnello Miani e il più grande disastro dell'Italia coloniale (2004) a A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell'occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini (2007), per non dire delle sue «biografie» di avversari degli italiani, da Il Negus. Vita e morte dell'ultimo Re dei re (1995) a Gheddafi. Una sfida dal deserto (1998). Resta il fatto però che senza le sue straordinarie ricostruzioni di base degli anni Settanta e Ottanta questi testi non sarebbero stati possibili né pensabili. È anche per questo che ricordare solo la parte controversia della sua opera risulterebbe inadatto, e sembrerebbe dare ragione postuma ai suoi detrattori.
Forse, la migliore definizione Del Boca se la diede da sé: Un testimone scomodo (2000). Un testimone però senza il quale molti italiani oggi non saprebbero cosa fece l’Italia nell’Africa coloniale, né come pervicacemente ha cercato di dimenticarsene. Alla ricerca attorno a questo tema, con lo stesso spirito con cui da vent’anni era salito in montagna, Angelo Del Boca è sempre rimasto fedele. Ed è stato un bene per gli italiani.
Riproduzione riservata