In Italia i rabbini scrivono spesso articoli in cui denunziano le condizioni critiche delle comunità ebraiche. L’andamento demografico dell’ebraismo italiano – lamentano quei testi – è inquietante, caratterizzato dal rovinoso calo del numero degli iscritti e dalla scomparsa, a quanto pare irreversibile, di varie comunità minori. Con questo trend, affermano i rabbini, nel giro di pochi anni saranno progressivamente ridotte all’osso anche le due comunità maggiori, Roma e Milano. A tali denunce si accompagnano vigorose filippiche che rivelano, negli scriventi, una patetica nostalgia per «il mondo di ieri». Vi si prendono di mira, in particolare, i matrimoni misti, sempre più numerosi, la scarsa osservanza delle mitzwot e la generale tendenza di molti ebrei ad assimilarsi agli usi e ai costumi dei goyim. Il declino delle comunità italiane viene generalmente letto dai nostri rabbini nel segno di un deprimente pessimismo conservatore.
Rileggo gli scritti di Amos Luzzatto a distanza di un anno dalla scomparsa. E il suo pensiero, se lo paragono a quello attuale dei rabbini, mi appare decisamente più moderno, più equilibrato, più calato nel mondo e nei suoi problemi, e più aperto a orizzonti di speranza nel futuro. In un saggio pubblicato nel 2003, intitolato Il posto degli ebrei e dedicato fra l’altro a individuare le possibili vie che la costruzione della nuova Europa aveva allora dinanzi a sé, Luzzatto scriveva:
«L’Europa deve essere aperta e inclusiva delle culture e delle confessioni di minoranza, nella consapevolezza che queste ultime presentano una costante crescita per numero e per importanza … Se l’Europa deve aspirare a essere un fenomeno nuovo che nasce all’insegna del superamento di un passato di sopraffazioni, di lacrime e di sangue, allora deve essere soprattutto la patria di tutti coloro che la abitano e che intendono abitarla, portandovi una sintesi tra culture, religioni, lingue e costumi di vita diversi, all’insegna del rispetto reciproco».
Nato in una famiglia di antica tradizione ebraica, cacciato a dieci anni dalle scuole italiane in seguito alle leggi fasciste sulla «difesa della razza», costretto nel 1939 a emigrare nella Palestina mandataria con la madre e i nonni Lattes, rientrato in Italia dopo la fine della guerra, iscritto al Partito comunista dal 1946, impegnato per più di quarant’anni quale chirurgo in svariati ospedali, eletto presidente dell’Unione della Comunità ebraiche italiane per due mandati, dal 1998 all’inizio del 2006 – cioè in un periodo di impervia transizione, con la nuova destra postfascista al potere a Palazzo Chigi e un quadro politico nazionale e internazionale gravido di rischi –, Amos Luzzatto fu l’autorevole dirigente ebreo che nel 2003 si assunse la responsabilità di scortare il postfascista Gianfranco Fini nella sua storica visita allo Yad Vashem di Gerusalemme.
Nel 2008 la rivista di vita e cultura ebraica «Keshet», che dirigevo, celebrò l’ottantesimo compleanno di Amos dedicandogli un corposo Festschrift. Nelle pagine di apertura, quel fascicolo conteneva una calorosa lettera intitolata «Amos visto da vicino», nella quale Alisa, Gadi e Michele, i tre figlioli di Amos e Laura, scrivevano fra l’altro:
«Anche quando eravamo bambini Amos non è mai stato un uomo "privato", chiuso nell’orizzonte della famiglia e della sua vita […] Amos si è sempre occupato attivamente di politica, ha fatto il chirurgo, non come un mestiere ma come un’avventura intellettuale e umana, ha continuato a studiare l’ebraismo anche in periodi in cui non era proprio di moda e poteva essere scomodo farlo in certi ambienti. Nel frattempo scriveva racconti, per bambini e per grandi, studiava matematica […] Come filo rosso, costante su tutto, Amos ha sempre tenuto la cultura al primo posto».
In coincidenza con l’ottantesimo compleanno, Amos stesso diede alle stampe nel 2008 l’autobiografia Conta e racconta (un titolo che si rifà a un versetto del libro di Daniele, «fai il tuo bilancio e parlane»), con il significativo sottotitolo Memorie di un ebreo di sinistra. Pubblicata a tre anni di distanza dalle dimissioni dalla presidenza dell’Ucei, quest’opera ha il grande pregio di restituirci un ampio quadro delle riflessioni che Luzzatto stesso ebbe a fare circa il proprio impegno nella vita pubblica italiana e nell’ambito della cultura degli ebrei.
«Mi dichiaro di sinistra», spiegava Amos, «e sostengo che si debba promuovere una cultura di sinistra, non certo un’ideologia. E mi dichiaro al tempo stesso ebreo; certo, non un ebreo ortodosso, ma uno che è cresciuto immerso nello studio della cultura ebraica. E mi dichiaro al tempo stesso europeo. Perché l’Europa ha avuto la filosofia, il teatro, l’arte, la matematica e la scienza. E voglio e devo capire perché ha avuto anche le Crociate, l’Inquisizione, i roghi, la tratta degli schiavi dall’Africa, il nazismo».
Per quanto concerne l’impegno in ambito ebraico, Luzzatto dichiarava di averlo perseguito essendo influenzato da più fattori indipendenti fra loro, ma in particolare dall’esigenza di comprendere meglio la sua stessa esperienza palestinese, quell’ebraismo che vi si era formato «con quel carattere non ortodosso, non sefardita, laico […] Intensificare i rapporti con Israele – chiariva Amos in Conta e racconta – significava e significa necessariamente entrare nell’ottica del pluralismo che non respinge neppure un ebraismo cosiddetto laico».
Amos fu membro del Consiglio dell’Unione delle Comunità ebraiche per ben diciannove anni, dal 1986 al 2006, ivi compreso il periodo in cui ne fu il presidente. Sosteneva di avere fatto, in tale veste, il suo lavoro «senza cercare di imporre una linea di parte, consapevole di rappresentare la totalità dell’ebraismo italiano». Così, quando assunse la presidenza succedendo a Tullia Zevi, volle definirne il carattere presentando una sua breve linea programmatica, articolata con equilibrio lungo tre assi che, in senso lato, si potevano ben qualificare come «politici».
Vi si affermava in primo luogo la necessità di una presenza pubblica dell’ebraismo in Italia, nella nostra società civile, «per sostenere le ragioni di uno Stato laico, equanime nei confronti di tutte le sue minoranze, religiose, linguistiche, di recente immigrazione; nessuna identificazione con precisi schieramenti politici ma apertura al confronto con tutti, con l’unica pregiudiziale del nostro antifascismo». In secondo luogo vi si sosteneva l’importanza di promuovere la cultura e la conoscenza della lingua ebraica, unitamente a un intenso rapporto con lo Stato d’Israele. E, in terzo luogo, vi si sottolineava la necessità di potenziare «il dialogo interreligioso, affrontando con civile dignità una serie di problemi ancora insoluti, malgrado l’indiscutibile innovazione portata dal Concilio Vaticano II, e parlando con il mondo musulmano dove le riserve politiche condizionano troppo spesso le relazioni religiose».
Nel frattempo Luzzatto non mancava di prendere parte di persona a iniziative di dialogo, soprattutto a quelle dette «interconfessionali» quali il Sae, l’Amicizia ebraico-cristiana, il Colloquio cristiano-ebraico di Camaldoli; e poi alle iniziative della Comunità di Sant’Egidio nonché a iniziative squisitamente culturali quali quelle promosse da «Biblia».
In una lettera scritta nel 2001 al pastore luterano Jürg Kleeman, Amos affermava:
«Dobbiamo guardarci dall’errore di personificare, per così dire, le nostre religioni facendole diventare i "soggetti" del dialogo. I soggetti rimangono sempre, con tutti i loro limiti, le donne e gli uomini che si riconoscono in queste religioni… le "persone" in dialogo hanno bisogno di parlarsi per confessarsi reciprocamente i propri dubbi, i propri dilemmi, le contraddizioni che non sanno risolvere. Se lo fanno con sincerità, essi diventano amici e alla fine cercano la strada per aiutarsi l’uno con l’altro […] si domanderanno assieme perché c’è ancora tanta malvagità a questo mondo, perché ci si uccide, perché tanti cercano rifugio nella droga […] perché si glorificano ancora le divise militarti e le battaglie […] Pensiamo a Giobbe. Egli aveva tanti dubbi. I suoi amici non ne avevano affatto. Egli cercava il dialogo, i tre amici gli rispondevano con monologhi […] Ma alla fine del libro, Dio apprezza la sincerità di Giobbe».
A proposito del contributo offerto da Luzzatto alle sessioni estive del Sae, il compianto Gioachino Pistone rilevava:
«Amos è stato non solo un grande hakham (in ebraico: "sapiente, saggio") ma anche un grande morè (in ebraico: "maestro"), senza rinunciare mai alla profondità del messaggio. Con le sue conferenze, con le sue meditazioni, con la partecipazione ai gruppi di lavoro, con i suoi interventi di cui è difficile dimenticare l’acutezza e la ricchezza, unite alla chiarezza cristallina, Amos non solo ha trasmesso alle generazioni di cristiani che si sono succedute al Sae dei contenuti di conoscenza fondamentali ma – cosa che credo ancora più importante – ha insegnato loro a guardare e a rapportarsi in modo diverso al popolo d’Israele e a tutto ciò che lo rappresenta e lo definisce».
Nei primi anni di Luzzatto alla presidenza dell’Ucei, si tenne a Roma il primo gay pride italiano: un evento nel corso del quale vi furono pressioni perché il corteo non si avvicinasse troppo alle mura vaticane. In quella circostanza Amos – incurante di chi gli ricordava che l’omosessualità è condannata dalla Torà – insistette perché l’Ucei sostenesse senza mezzi termini i diritti degli omosessuali: minoranza irrisa, emarginata, assassinata anch’essa ad Auschwitz («noi con il triangolo giallo, voi con il triangolo rosa»). Secondo Luzzatto, il diritto a manifestare pacificamente, quando e dove avessero voluto, nel rispetto della Legge e all’interno del territorio gestito dalle autorità italiane, doveva essere sostenuto quale diritto irrinunciabile per i gay, come pure per altre minoranze quale sarebbe potuta essere quella ebraica, per ribadire la stessa laicità dello Stato come valore comune.
Un capitolo di Conta e racconta (intitolato La politica degli ebrei, gli ebrei nella politica) illustra in modo argomentato il senso che Luzzatto intendeva dare al suo impegnarsi di persona, in quanto ebreo, nella vita pubblica italiana. «Ho spesso detto – scriveva Amos – che anche se gli ebrei non vanno dalla politica, è la politica che va dagli ebrei (e non solo dagli ebrei) […] L’errore – proseguiva – non è quello di “fare politica", semmai è quello di far coincidere le istituzioni ebraiche con un preciso schieramento politico che venga proclamato "il miglior amico degli ebrei”, generalmente sulla base di un’autentica autocertificazione». Richiamati, poi, alcuni temi politici che a suo parere sono di spiccato interesse ebraico, e precisamente: la laicità dello Stato, la democrazia, i diritti delle minoranze, il ripudio della violenza, la promozione della cultura, Amos rilevava che «istituzioni rappresentative pubbliche, come le nostre Comunità o la loro Unione, che si proclamano pluraliste (e anche unitarie, che non significa la stessa cosa di maggioritarie), dovrebbero essere rappresentate con modalità, forme e contenuti largamente condivisi, sempre nel rispetto dei principi qui enunciati». E infine, ricorrendo a parole profondamente meditate, che sottintendevano sofferti interrogativi, Amos dichiarava: «ho cercato di farlo con tutte le mie forze. Può darsi che non sempre ci sia riuscito, ma ho impegnato in questo sforzo tutta la mia attività in sette anni di presidenza, contro coloro che cercavano in tutti i modi di spingermi ad abbracciare posizioni di parte».
Nel ricordare qui con voi la vicenda di Amos Luzzatto alla testa della massima istituzione ebraica italiana, temo di non poter confermare che egli sia riuscito, al di là delle sue migliori intenzioni, a trasformare l’Ucei in uno strumento capace di guidare il piccolo rissoso mondo degli ebrei italiani verso quei valori che egli riteneva dovessero stare al centro dell’azione e degli interessi del nostro ebraismo. Sugli ultimi burrascosi mesi della sua presidenza, dal settembre 2005 al febbraio 2006, e sulle circostanze che lo indussero a dimettersi, sarebbe inutile cercare in Conta e racconta qualche cenno chiarificatore.
Per comprendere il dramma che Luzzatto visse in quel periodo, occorre tenere conto del fatto che la sua cultura politica era quella di un uomo formatosi negli anni dell’immediato dopoguerra, nella temperie culturale dettata da quella élite che fece nascere e crescere l’Italia repubblicana, contribuendo a dotarla di una Carta costituzionale per molti versi splendida e muovendosi all’interno del cosiddetto «paradigma antifascista e resistenziale». Durante la Resistenza e negli anni del dopoguerra, molti furono nel nostro Paese gli ebrei che tennero fede alla solidarietà antifascista militando nei vari partiti, in particolare in quelli della sinistra e in quelli laici che, assieme alla Democrazia cristiana, facevano allora parte dell’arco costituzionale.
Durante la Resistenza e negli anni del dopoguerra, molti furono nel nostro Paese gli ebrei che tennero fede alla solidarietà antifascista militando nei vari partiti, in particolare in quelli della sinistra e in quelli laici
Ma con il collasso e la scomparsa dell’Unione Sovietica, nel 1989, con la fine della Guerra fredda e la conseguente crisi della Prima Repubblica, vennero emergendo in un ruolo protagonista nuove formazioni politiche, quali la Lega e Forza Italia, estranee alla vicenda storica dell’antifascismo o addirittura, come nel caso di Alleanza nazionale, affondanti le radici nelle vicende storiche e nei valori dello stesso regime fascista. Fin dal loro sorgere, queste nuove forze dimostrarono d’avere inteso chiaramente quanto la storia e la memoria possano essere formidabili strumenti di lotta politica e ideale. Perciò, sfruttando anche con maestria il circuito tra media e politica, avviarono una spregiudicata e martellante «guerra della memoria», tesa a operare un profondo spostamento del clima civile, culturale e politico del Paese, e a spianare la strada al post-fascismo con la diffusione presso la pubblica opinione di un giudizio edulcorato e assolutorio dell’avventura fascista, e mediante la contestuale messa sotto accusa della Resistenza, considerata colpevole di troppi eccessi e soprattutto d’avere legittimato i comunisti. «L’antifascismo è un mito incapacitante» della storia italiana, ebbe a dichiarare in quel periodo il berlusconiano Marcello Pera quand’era presidente del Senato. Vi fu persino uno storico di vaglia, come Renzo De Felice che, dedicando l’ultimo periodo della sua vita a una tenace battaglia per superare il paradigma antifascista, propose un’implicita riabilitazione di Mussolini affermando, fra l’altro, che il suo regime rimase «al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto» e «come non fu razzista, non fu nemmeno antisemita».
L’eredità che vari anni di guerra della memoria lasciarono dietro di sé in Italia consistette in un profondo cambiamento dello spirito pubblico, frutto di una vera e propria «frattura delle memorie» e di una diffusa amnesia collettiva: fenomeni che – agevolati dalla progressiva scomparsa dei sopravvissuti e dei testimoni della persecuzione nazifascista – investirono anche il piccolo mondo degli ebrei, in nulla diversi da tutti gli altri italiani.
L’eredità che vari anni di guerra della memoria lasciarono dietro di sé in Italia consistette in un profondo cambiamento dello spirito pubblico, frutto di una vera e propria "frattura delle memorie" e di una diffusa amnesia collettiva
Così la galassia politica delle destre, con la quale Amos Luzzatto si dovette confrontare nella veste di presidente dell’Ucei, destinò all’oblio il paradigma antifascista sostituendolo con due altri paradigmi, quello anticomunista e quello antislamico: paradigmi che, assunti quali stelle polari anche dall’establishment di destra che da vari decenni andava governando lo Stato d’Israele, non per caso risultarono andare a genio alla maggioranza degli ebrei italiani, in particolare agli ebrei che egemonizzano la Comunità di Roma.
Fu dunque un ruolo ufficiale improbo, particolarmente ostico, quello che Amos, «ebreo di sinistra», si trovò a svolgere nell’Italia politica di quegli anni, esponendosi ad attacchi colmi di veleno provenienti da ogni parte, ma in particolare dall’interno della stessa comunità ebraica, attestata ormai in larga maggioranza su posizioni di destra.
Fedele alla sua cultura politica, Luzzatto si sforzò con lucido impegno di porre al centro dell’azione e degli interessi della massima istituzione del nostro ebraismo temi quali la laicità dello Stato, la democrazia, i diritti delle minoranze, il ripudio della violenza, la promozione della cultura. Ma il momento storico non era più tale da consentire che un simile impegno potesse svilupparsi con successo.
Mi accade ora dunque, come rammentavo all’inizio, di ritrovarmi al cospetto del cupo, chiuso pessimismo con il quale i rabbini assistono, apparentemente impotenti, al progressivo declino del nostro piccolo mondo. E tuttavia, il fare qui con voi memoria dell’alta figura e della lezione mirabile di Amos Luzzatto, mi induce a credere che sapremo reagire all’amnesia collettiva e al mediocre provincialismo autoreferenziale che da qualche decennio ci stanno ottundendo, e che riusciremo prima o poi a recuperare con orgoglio quella variegata creatività culturale che il mondo ebraico ha saputo, anche in Italia, storicamente produrre.
[Questo testo riproduce l’intervento tenuto dall’autore il 6 dicembre 2021 al XLI Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli.]
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