Ci sono vite di un’umile classicità conferita dal tempo. Altre sono vissute già perfette. Svolazzanti e sinuose, sottratte dal dominio del normale. E per natura votate a far discutere.È il caso di quella di Alexandre Kojève, l’uomo che ha inventato Hegel nel Novecento. Per sei anni, in un’auletta dell’École Pratique des Hautes Études di Parigi, dal 1933 al 1939, ogni lunedì pomeriggio Kojève assume una posa seriosa e insieme un po’ caricaturale. Posture affettate che un giovane moscovita gioca a assumere con la stessa naturalezza con la quale s’indossa un abito. E ogni postura ha il suo armamentario di orpelli e ornamenti necessari alla giusta posa: quella di Kojève ha la parvenza dell’entomologo. Inizia a leggere Hegel, la Fenomenologia dello spirito, con perizia, a un ristretto gruppo di allievi e lo viviseziona, ne cataloga i pezzi che gli interessano e solo quelli, buttando via il resto, per poi ricucire il tutto e presentarlo rammendato, rattoppato, nuovo di zecca. Alta macelleria filosofica. Stupenda operazione d’imprecisione filologica e rigore filosofico.
Il resto è noto: quelle lezioni divennero una leggenda, soprattutto per i pochi, blasonati allievi. Il giovane emigrato russo di appena 31 anni parlava a una straordinaria mischia filosofica, dove si confondevano Jacques Lacan e Georges Bataille, Maurice Merleau-Ponty e Raymond Queneau, Gaston Fessard e Eric Weil, Aron Gurvitch e Roger Caillois, poi Jean Hyppolite, Raymond Aron, Robert Marjolin e talvolta André Breton. Insomma, il meglio della cultura francese del dopoguerra si lasciava sedurre dall’Hegel inventato da Kojève, o meglio da quella mitologia hegeliana operante e efficace che era il prodotto della «cura» kojèviana.
Nel dopoguerra quelle lezioni divennero un libro, curato da Raymond Queneau, dal titolo apparentemente modesto: Introduction à la lecture de Hegel. E fece epoca, visto che per un certo periodo è stato un rimando obbligato di ogni scritto su Hegel; come non vi fu dibattito sul marxismo o l’esistenzialismo francesi che non abbia menzionato la lezione filosofica del suo autore – che racchiude i grandi temi del Novecento filosofico: libertà e temporalità, morte, finitezza e trascendenza, possibilità e decisione.
Ma chi era davvero questo personaggio descritto come una delle figure più seducenti e intriganti del secolo scorso? L’uomo che, dopo esser stato al centro della stagione filosofica e culturale fra le due guerre, inizia nel ’45 una carriera all’interno dell’amministrazione francese che lo porterà a essere un alto funzionario – e da qui la gioia delle «filosofiche» malelingue: proveniente dalla ricca borghesia commerciale russa (era nipote del pittore Wassily Kandinsky) o agente segreto comunista infiltrato nei vertici dello Stato? Funzionario troppo zelante, traditore della causa intellettuale, che ha scambiato la Ragione con la ragion di Stato? Falsario del marxismo o anticristo che seduce i gesuiti?
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 4/20, pp. 683-691. Il fascicolo è acquistabile qui]
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