La identificazione di stampo sciovinistico con la società cui si appartiene e una corrispondente esclusione di tutti gli “altri” che sono considerati non farne parte incarnano la regressione nazionalistica in corso dei sistemi di Welfare capitalism. Questi ultimi, pur nelle diverse declinazioni nazionali, nella seconda metà del secolo scorso resero possibile l’affermazione di una cittadinanza sostenuta non da una comune discendenza ma da un vincolo di solidarietà tra persone reciprocamente estranee. Oggi, al contrario, in diversi Paesi, tra cui Italia, Gran Bretagna, Polonia, Ungheria, per limitarsi all’Europa, si è andata affermando ciò che Ash Amin definisce una “estetica della politica nativista” che mobilita sentimenti come il risentimento, la rabbia, la paura e l’orgoglio patriottico dei gruppi sociali “lasciati indietro” o che si percepiscono su un piano inclinato e, in quanto tali, più esposti alla insicurezza economica e alla precarietà esistenziale determinata dalla pandemia e dalla crisi climatica. Tale narrativa ha creato un terreno favorevole a una politica di chiusura sia verso l’esterno – la “fortezza Europa” divenuta un assemblaggio di singoli Stati nazionali che hanno alzato i loro ponti levatoi anche reciprocamente – sia all’interno di questi ultimi con il ritorno alla distinzione tra il cittadino “meritevole” e il soggetto “non meritevole” considerato non solo come “salasso delle risorse della nazione” ma anche come portatore di malattie, minaccia fisica e offesa al decoro pubblico. Rispetto a tutto ciò la elaborazione politica di stampo progressista – liberale, socialdemocratica e socialista – ha perso voce e vigore e si è mostrata incapace di dar vita a una controffensiva sul piano politico e delle rappresentazioni basata su una riformulazione della nozione di appartenenza.
Questo è l’antefatto, se così si può dire, dell’ultimo libro di Ash Amin, After Nativism. Belonging in an Age of Intolerance (2023), di recente pubblicato dalla casa editrice Polity Press. Accademico di livello internazionale, professore emerito di Geografia nell’Università di Cambridge, Amin ha sempre espresso nei suoi lavori – molti dei quali tradotti in italiano – la sicurezza e la competenza scientifica che corrisponde al suo status, cioè la capacità di lettura della realtà sociale dall’alto secondo un approccio multidisciplinare ricco di riferimenti al lavoro di altri studiosi, non solo contemporanei, che mira a superare interpretazioni consolidate e stantie. Ma i suoi studi, così come i suoi seminari, sono sempre percorsi da una forte tensione politica: una radicalità e una opposizione all’ingiustizia e alla discriminazione con la capacità di vedere le cose con un’ottica alternativa, con una visione altra, dal basso, attenta alla qualità dei legami sociali, più che alle proprietà dell’incontro, e alle soluzioni ai problemi collettivi che ne possono scaturire.
After Nativism, scritto durante la pandemia e in piena crisi climatica, è uno dei libri in cui emerge con più forza questa sua postura di studioso, poiché è mosso dalla urgenza del momento storico e dalla necessità di dar vita a una estetica politica dell’appartenenza in grado di opporsi a orientamenti xenofobi, razzisti e sciovinisti. Questi ultimi traggono forza dalla trasformazione digitale della sfera pubblica in una “sfera pubblica intima” (concetto che Amin riprende da Lauren Berlant) fatta di relazioni a distanza ma particolarmente dense, divenuta sempre più terreno di battaglia di posizioni identitarie.
A quali condizioni si può offrire una alternativa al nativismo ai soggetti (e ai territori) “lasciati indietro” che hanno creduto di trovare nell’ostilità verso gli altri, nel risentimento e nella rabbia una possibile via di salvezza?
Questa urgenza innerva la domanda centrale del libro che è la seguente: a quali condizioni si può offrire una alternativa al nativismo ai soggetti (e ai territori) “lasciati indietro” che hanno creduto di trovare nell’ostilità verso gli altri, nel risentimento e nella rabbia una possibile via di salvezza? Per Ash Amin vi sono tre principali strade da perseguire che sono allo stesso tempo percorsi di ricerca e forme di azione politica.
Per prima cosa egli mette in guardia dal fatto che per superare il nativismo sia sufficiente assicurare la sicurezza economica e la protezione dai rischi esistenziali delle principali vittime del capitalismo globalizzato e dell’ideologia neoliberalista. Da un lato Amin riconosce che la restrizione e la diseguale distribuzione delle opportunità di benessere sociale producono un aumento del risentimento sociale. Il linguaggio dei diritti universali resta dunque prioritario e non deve essere sacrificato in favore di quello emergente fondato su nuove gerarchie di meritevolezza che contrappongono i nativi agli “estranei”. Dall’altro lato Amin, così come in precedenti lavori, introduce un livello di ragionamento sovrastrutturale rappresentato dai discorsi, dalle narrazioni e dalle rappresentazioni. Per fronteggiare in modo efficace il nazionalismo etnico xenofobo che sta attraversando l’Europa è necessaria una nuova narrativa che sostituisca l’abitudine a definire la comunità attraverso miti nostalgici di identità nazionale omogenea con la storia di una nazione costruita su e proiettata attraverso le esistenti negoziazioni della diversità. Non è più possibile perseguire modelli passati di integrazione nazionale, occorre articolarne di nuovi, che siano in grado di affrontare il senso di ansia e di esclusione su cui sta prosperando il nazionalismo etnico.
La seconda condizione per realizzare una politica di appartenenza progressista è l’individuazione di ambiti della sfera pubblica fino a ora negletti in cui è possibile il confronto tra esperti e stakeholder in grado di elaborare un sapere comune che attraversi i confini spaziali e disciplinari. Ash Amin si riferisce soprattutto a esperienze internazionali come le comunità epistemiche che si sono formate a seguito dell’uragano Katrina a New Orleans tra ricercatori universitari, artisti, mecenati, semplici residenti, in risposta a una azione governativa tardiva e indifferente ai poveri o alle collaborazioni durante la pandemia del Covid-19 per trovare dei vaccini efficaci. Ma limitatamente al caso italiano si possono citare esempi simili come L’alleanza contro la povertà, il Forum disuguaglianze Diversità e il Collettivo di fabbrica GKN analizzati da Filippo Barbera in un suo recente libro in quanto “spazi del ‘noi’ a livello delle concezioni del mondo e dell’offerta di futuro – dove politica, saperi sociali e istanze di giustizia sociale si mescolano e si confrontano all’insegna di processi aperti e multivocali” (Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica, Laterza, 2023).
La terza condizione individuata da Amin riguarda la necessità di spingere le forze progressiste a costruire “una estetica di comunità immaginata a partire dalla conciliazione culturale delle esperienze vissute” (pag. 6) che non faccia leva solo sui principi del cosmopolitismo o della varietà delle forme di patriottismo civico ma anche sulle diverse pratiche di coesistenza conviviale, coabitazione e mutuo aiuto. Tale estetica politica deve essere in grado di smuovere “cuori e menti” (pag. 7) e di fornire una specifica iconografia con la quale identificarsi come è accaduto per il movimento operaio, femminista e anticoloniale di un passato più o meno recente.
Il complesso discorso di Amin costringe spesso il lettore in un corpo a corpo con il testo per venire a capo del suo significato più profondo
La nostra sintesi delle principali argomentazioni contenute nel libro non dà certamente conto della complessità del discorso di Amin, che costringe spesso il lettore in un corpo a corpo con il testo per venire a capo del suo significato più profondo sia perché esso si muove all’interno di schemi teorici e disciplinari dichiaratamente non definiti sia anche per il ricorso a una lingua che evita le semplificazioni dell’inglese accademico e pertanto non sempre facile da seguire. Per quest’ultima ragione è auspicabile una traduzione in italiano per rendere più fruibile il libro ad attivisti, operatori sociali e a studenti che si affacciano per la prima volta all’Università. Essi beneficerebbero così della possibilità di fare un esercizio di immaginazione sociologica e di acquisire strumenti metodologici per la ricerca sul campo non convenzionali.
In particolare a mio avviso riveste anche una importanza didattica il secondo capitolo, dal titolo Street Affinites, che riporta i risultati di una etnografia svoltasi all’inizio del 2020 – all’epoca dunque della violenta ondata di nazionalismo induista promossa dal primo ministro Narendra Modi – all’interno di due insediamenti per senza dimora: l’uno non autorizzato situato nella parte meridionale di Dehli e l’altro gestito da una Ong nell’area centrale dell’antica Dehli. Coerentemente con il suo interesse per lo stare insieme non ridotto alle proprietà dell’incontro (il convivium), Amin spiega di aver focalizzato la sua attenzione sulle due aree non in quanto “palcoscenico sul quale si dispiegano le relazioni sociali” (pag. 60) ma come “ecologie di esperienze” nelle quali la soggettività e la socialità urbana fanno scaturire di volta in volta la reciprocità dei corpi e delle forme insediative. Questo approccio gli consente anche di evidenziare la centralità delle donne nelle strategie di fronteggiamento della povertà e nella promozione del cambiamento e di pratiche collaborative, nei loro molteplici ruoli di caregiver, lavoratrici, attiviste, nonché il loro sforzo di acquisire una istruzione nonostante tutto – deve “parlare con le madri”, si sente dire spesso Ash Amin durante la ricerca – e come al contempo alcune di esse, materialmente e mentalmente esauste, le “follen women” le definisce l’autore, finiscano per soccombere sotto tale carico di aspettative familiari e comunitarie.
Insomma l’impegno richiesto dalla lettura di questo libro è ben ripagato. Quando si è giunti alla fine si ha la piena consapevolezza che la propria prospettiva di analisi ne è stata profondamente modificata, che nuovi e ineludibili temi di riflessione hanno fatto breccia, e che ci sono molti modi per giungere a negoziare significati, condividere valori comuni e attribuire senso al mondo circostante anche se stiamo attraversando una “epoca di intolleranza”. Amin ce ne mostra diversi. Sta a noi individuarne altri gettando il cuore oltre l’ostacolo del nativismo.
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