«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?». Adriano Olivetti pronuncia queste parole alla cerimonia di inaugurazione del nuovo stabilimento di Pozzuoli. È un giorno di fine aprile del 1955, l’evento vede una grande partecipazione di gente comune, autorità cittadine e personalità del mondo industriale internazionale. Questi interrogativi rappresentano un orientamento, una visione del mondo che è centrale per comprendere tanti aspetti della biografia di una personalità così sfaccettata e fuori dall’ordinario come la sua.
Non è facile, infatti, tracciare i percorsi e i confini dell’esistenza di un uomo talmente dentro al suo tempo e, insieme, talmente sopra le righe. Paolo Bricco, invece, ci ha provato e il suo libro Adriano Olivetti, un italiano del Novecento riesce a raccontare quella molteplicità di sguardi e punti di vista attraverso i quali accostarsi alla sua figura di imprenditore del secolo scorso.
È un libro intenso. Perché oltre a raccontare di questo uomo visionario di Ivrea, parla del nostro Paese, della storia che lo attraversa dal primo Novecento all’avvento del fascismo, dalle guerre al boom economico. Si concentra inoltre sulla società e sulla cultura, mostrandone le correnti multiforme che hanno contribuito a disegnare l’Italia del secolo scorso: fanno la loro comparsa nomi cruciali della storia del Novecento, rappresentanti degli ambiti più diversi ma che, in un modo o nell’altro, risultano legati alla storia di Olivetti, al punto che – leggendoli tutti insieme – si avverte, forse, una certa nostalgia. Certo se ne rimane affascinati.
Ad esempio, quando alla voce di Bricco come narratore si alterna quella di Natalia Ginzburg che in Lessico famigliare ci restituisce alcuni tratti della personalità di Adriano Olivetti e dei contatti tra le loro famiglie. Oppure, semplicemente, ce ne restituisce un’immagine deliziosa: «Gli Olivetti abitavano, a Ivrea, in una casa chiamata il Convento, perché era stata in passato un convento di frati; e avevano boschi e vigne, mucche, e una stalla. Avendo quelle mucche facevano, ogni giorno, dolci con la panna».
Del resto Bricco lo dice sin da subito: «Gli Olivetti sono gli Olivetti». E quei loro tratti enigmatici e curiosi giocheranno un ruolo fondamentale lungo il percorso.
È un libro intenso. Perché oltre a raccontare di questo uomo visionario di Ivrea, parla del nostro Paese, della storia che lo attraversa dal primo Novecento all’avvento del fascismo, dalle guerre al boom economico
È un libro che apre innumerevoli percorsi di lettura, tutti suggeriti e ampiamente documentati dalla ricerca rigorosa di Paolo Bricco (come non perdersi tra i titoli riportati in bibliografia) che si propone di ricostruire un quadro che sia il più possibile completo ma che dimostri anche la complessità di quei tempi. Impossibile accennare a ciascuno di essi ma alcune prospettive sono degne di particolare interesse.
Innanzitutto, non si può parlare di Adriano senza parlare del padre, Camillo, cui sono dedicate le prime pagine del testo. Dopo un periodo dedicato a importare biciclette e macchine per scrivere, nel 1896 fonda a Ivrea la C. Olivetti & C. («un’officina per la fabbricazione di strumenti di misurazione elettrica»), sentendosi chiamato a diventare «un industriale che fabbrica propri prodotti, con un’energia e una determinazione al limite della violenza». Mette così in atto una rivoluzione in quel territorio dominato da un’economia agricola e innesca un nuovo modo di guardare al lavoro e alla realtà di provincia, trasformando i contadini in operai. È solo l’incipit di questa storia. Un piccolo nucleo che nel corso di una decina di anni si espanderà e diventerà «la prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere». Il lavoro, l’officina, i macchinari. Ma è soprattutto uno sguardo a essere rappresentativo di questi primi tempi: «Camillo ha un’idea – scrive Bricco - chi è nella parte bassa della gerarchia della società, grazie al lavoro e al sapere acquisito con lo studio e l’applicazione, la fatica e la disciplina, può diventare altro da sé».
La concezione del lavoro come emancipazione, la convinzione che la realtà e il mondo si possano trasformare e, ancora, la visione fiduciosa dell’uomo rimarranno punti fermi anche nella storia imprenditoriale di Adriano, nonostante i momenti bui che sarà costretto ad attraversare, come quello che lo vedrà avvicinarsi al fascismo.
Adriano Olivetti arriverà a gettare le basi della città ideale del fascismo. E se il legame teorico con il fascismo sarà destinato a deteriorarsi, il sogno di una città ideale rimarrà e darà i suoi frutti, proprio a Ivrea
Il rapporto con la politica è un altro aspetto che ripercorre l’intero volume. Utile, al di là della sua vicenda personale, per comprendere molte delle contraddizioni che abitavano gli uomini del suo tempo. Ma anche appassionante. L’ambiente in cui Adriano Olivetti cresce e si forma guarda al socialismo come a una visione del mondo cui fare riferimento per gettare le basi del futuro. «Nella Torino di allora, la politica è in ogni cosa. Torino è la città più politica d’Italia»: siamo all’inizio del Novecento e le figure che troviamo sulla scena sono quelle di Gramsci, di Gobetti, di Turati (amico del padre Camillo e che Adriano, nel dicembre del 1926, aiuterà a imbarcarsi per la Corsica, per raggiungere poi Parigi dove morirà qualche anno dopo). Non pare così strano, quindi, che in una lettera del 26 dicembre del 1925, mentre si trova a New York, Adriano descriva il fascismo come una «banda di mascalzoni e assassini che delizia il bel paese». Quello che fa riflettere, piuttosto, è sapere come l’Adriano imprenditore qualche anno più tardi arriverà a condividere la «via fascista alla modernità industriale», a incontrare Mussolini e a gettare le basi della città ideale del fascismo, descrivendone le caratteristiche: farà in modo di «realizzare il minor spreco di energia umana e materiale (permanenza inutile di ore di treno, di tram, di operai e impiegati)», creerà una corrispondenza tra i centri di produzione e le abitazioni dei lavoratori, i quali a loro volta saranno in relazione con i centri sportivi, educativi e ricreativi. Inoltre, «l’aspetto igienico sarà posto in primo piano e la città sarà trasformata in città-giardino […], la città dei grandi spazi verdi in mezzo a grandi costruzioni piene di terrazze, di luce e di sole». E se il legame teorico con il fascismo sarà destinato a deteriorarsi, il sogno di una città ideale rimarrà e darà i suoi frutti, proprio a Ivrea, con la presenza – tra le altre cose – di un Centro di formazione in cui apprendere materie tecnoindustriali e umanistiche, l’infermeria, la mensa, la biblioteca. E ancora le borse di studio, l’assistenza medica, l’asilo per i figli degli operai.
Scrive Bricco: "La Olivetti di Adriano ha due fuochi generatori: la tecnologia e l’estetica. L’estetica contribuisce a definire il posizionamento della Olivetti di Adriano sul mercato"
Si intravede, in questo modo di intendere la fabbrica e l’operaio, un’antropologia olivettiana che ruoterà intorno alle parole “comunità”, “persona”, “solidarietà”. Uno sguardo all’essere umano che si nutrirà del pensiero di pensatori e filosofi, tra cui quello di Simone Weil. L’imprenditore sarà sempre più convinto che a nutrire la democrazia debba essere un legame sinergico tra politica, cultura e organizzazione della società. Ed è proprio in quest’ottica che si inserisce la proposta di attività e di incontri, a Ivrea, volti alla formazione e all’arricchimento dell’individuo: mostre con opere d’arte, riflessioni tenute da Norberto Bobbio, dialoghi sulla letteratura con Alberto Moravia e Italo Calvino. L’impegno di Adriano Olivetti è coinvolgente, anche se non proprio tutti ne rimangono contagiati (vedi alla voce Franco Fortini).
Infine, non si può non accennare alla definizione di un’estetica che diverrà sempre più funzionale ed essenziale in questa storia. «La Olivetti di Adriano ha due fuochi generatori: la tecnologia e l’estetica – scrive Bricco – […] L’estetica – il disegno industriale, le architetture sociali, la pubblicità, la comunicazione visiva – contribuisce a definire il posizionamento della Olivetti di Adriano sul mercato e il segno impresso nella società e nella cultura. Stabilisce l’alfabeto del dialogo con le altre componenti della realtà internazionale». Ed è così che in Olivetti entra l’impronta stilistica del Bauhaus che sembra addirsi a quel gusto olivettiano per la grafica «chiara e limpida, luminosa e aperta», ancora oggi riconoscibile. Ma l’azienda spalanca le porte anche alla creatività nel marketing. Un aneddoto su tutti: il 26 maggio 1954 verrà inaugurato il negozio dell’azienda a New York, del quale Gio Ponti descriverà la capacità di trasportare il cliente o, più semplicemente, il visitatore «in un clima di immaginazione, e di libertà». Fuori dal negozio, tra la vetrata e il bordo del marciapiede, viene collocata una Lettera 22. «Chiunque può fermarsi e infilare un foglio bianco nel rullo e digitare, lasciando sulla Olivetti parole d’amore (o d’altro) scritte a macchina». È un’altra componente del sogno.
L’esistenza di Adriano Olivetti si conclude il 27 febbraio 1960, mentre è in viaggio sul treno Milano-Losanna. Il tempo si fermerà per lui. Per l’Olivetti no, o almeno non in quel momento, anche se la magia di quel passato rimarrà da quel momento un ricordo.
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