C’è una distanza siderale tra il giudizio che accolse Adolfo Suárez al momento della sua nomina alla presidenza del governo spagnolo da parte del re Juan Carlos I e quello che ne ha accompagnato la definitiva uscita di scena il 23 marzo. Una distanza che nessuno spagnolo nel secondo dopoguerra era riuscito finora a far segnare.
Quando il sovrano lo scelse, il 3 luglio 1976, i più rimasero delusi. Lo rimasero quelle personalità di primo piano del passato regime che, essendo approdate a posizioni «aperturiste», si sentivano investite della missione di traghettare il paese nel dopo Franco. Lo rimasero le opposizioni antifranchiste e l’opinione democratica europea che si aspettavano un segnale di cambiamento da parte del re e si trovarono di fronte a una scelta che giudicarono «continuista». Suárez, infatti, non poteva che apparire per quello che era: un giovane politico di seconda fila del regime, ex direttore generale della Radio televisione spagnola e poi ministro segretario del Movimiento (cioè del partito unico) nel precedente governo di Arias Navarro.
Sappiamo da tempo che il re aveva fortemente voluto che il nome di Suárez comparisse nella terna di quelli che, secondo le leggi franchiste, il Consiglio del Regno doveva fornire al sovrano affinché all’interno di questa rosa operasse la propria scelta. E sappiamo che si trattava di un piano congegnato tra il re e Torcuato Fernández Miranda, presidente delle Cortes franchiste e del Consiglio del Regno, il principale architetto giuridico della transizione.Mai legge tanto essenziale produsse un terremoto di così ampie dimensioni sul piano istituzionale, mettendo in moto quella transizione alla democrazia "dalla legge alla legge attraverso la legge"cioè senza rotture nella continuità dello StatoNé accoglienza migliore gli stessi ambienti antifranchisti riservarono alla successiva mossa di Suárez quando propose, e sorprendentemente riuscì a far approvare dalle Cortes franchiste, la Ley de Reforma política. Mai legge tanto essenziale (5 articoli, 3 disposizioni transitorie e una disposizione finale) produsse un terremoto di così ampie dimensioni sul piano istituzionale, mettendo in moto quella transizione alla democrazia «dalla legge alla legge attraverso la legge», cioè senza rotture nella continuità dello Stato, che l’opposizione antifranchista inizialmente osteggiò, poi digerì fatica e in ritardo, tant’è che diede indicazione di voto per l’astensione al referendum che l’avrebbe ratificata il 15 dicembre 1976.
Poi in fretta e furia Suárez costruì un proprio partito, l’Unión de Centro Democrático (Ucd) con cui vinse le elezioni costituenti del 15 giugno 1977. Riuscendo a destreggiarsi tra le pressioni dell’esercito, quelle della Chiesa e dei sindacati, vinse anche quelle successive nel 1979, le prime del regime costituzionale, che inaugurarono una legislatura irta di problemi. Non ultimi quelli interni all’Ucd: più che un partito una coalizione di gruppi e partitini, con capi e capetti, che spaziavano dal centro destra liberale a un centro sinistra socialdemocratico, passando per un centro democratico cristiano. Improbo il compito di tenerli uniti e infatti tre anni dopo Suárez fu clamorosamente sconfitto dai socialisti che avviarono quella nuova e lunga stagione della democrazia spagnola che dal 1982 si sarebbe protratta fino al 1996.
Suárez non rinunciò alla competizione politica. Fondò infatti il Centro Democrático Social (Cds) con il quale si presentò alle elezioni del 1982, 1986 e 1989 risultando sempre eletto, ma ormai sempre meno protagonista attivo della vita politica e sempre più oggetto di celebrazioni per il suo ruolo passato.
In un Paese inondato dalla letteratura memorialista, non sempre indispensabile, dei politici, la malattia che si accanisce contro la memoria ha impedito a Suárez, colpito dall’Alzheimer nel 2003, di lasciarci un volume di, queste sì, preziose memorie. La cui mancanza non impedirà l’accertamento della verità storica, ma ci priva del suo punto di vista e di una fonte unica. Restano pertanto oscuri alcuni passaggi sui quali gli analisi e gli storici si sono interrogati in tutti questi anni.In un Paese inondato dalla letteratura memorialista dei politici, la malattia che si accanisce contro la memoria ha impedito a Suárez, colpito dall’Alzheimer nel 2003, di lasciarci un volume di queste preziose memorieIl suo capolavoro politico resta non tanto la Ley de Reforma política (che fu pensata e redatta da Fernández Miranda), quanto piuttosto l’essere riuscito a farla approvare dalle Cortes franchiste il 18 novembre 1976. Si trattò di un passaggio di cruciale importanza, attraverso la cruna dell’ago, che spalancò le porte alla democrazia. Suárez e Fernández Miranda perseguirono l’obiettivo con straordinaria determinazione parlando personalmente con tutti i componenti delle Cortes al fine di strappare loro un voto favorevole. Si disse che, in particolare Suárez, promettesse ai più riottosi e ai militari che chiedevano garanzie al riguardo che mai e poi mai avrebbe legalizzato il Partito comunista. Cosa, invece, che poi avvenne e che forse il capo del governo non aveva in quel momento in programma.
Suárez si dimise il 29 gennaio 1981, a poche settimane dal tentativo di colpo di Stato militare del colonnello Tejero del 23 febbraio 1981. I militari, infatti, fecero irruzione nell’emiciclo della Congresso dei deputati mentre era in corso la votazione per la fiducia al suo successore, Ignacio Calvo Sotelo. Una frase criptica del messaggio televisivo di Suárez («Non voglio che il sistema democratico di convivenza sia, ancora una volta, una parentesi nella storia della Spagna») lasciò pensare che sapeva cosa si andava preparando e che tentò di scongiurarlo con la propria rinuncia. Anche perché la destra militare lo riteneva responsabile di presunte concessioni al nazionalismo basco e del decentramento amministrativo. Allo stesso tempo, essendo venuta meno la fiducia del sovrano nei suoi riguardi, dimettendosi liberava quest’ultimo dall’ombra di una vicinanza sospetta alle destre, rafforzandone il peso.
Convincente e particolarmente penetrante è il profilo che di Suárez ha tracciato lo scrittore spagnolo Javier Cercas in Anatomia di un istante, dove ne descrive la grande abilità nel disarticolare l’apparato franchista, ma come non altrettanto in grado di muoversi nell’ambito di quel quadro democratico alla costruzione del quale pure stava dando un contributo decisivo. Suárez navigò a vista, sapendo dove avrebbe voluto arrivare e cercando di volta in volta, anche contraddittoriamente, il modo per giungervi. La storia lo ricorderà come simbolo, per il suo ruolo e anche con un’immagine. Come simbolo dell’approdo alla democrazia di settori che erano stati franchisti convinti. Per il ruolo decisivo che svolse nella costruzione del consenso all’approdo del Paese iberico alla piena democrazia tra l’estate del 1976 e la fine del 1978, quando la Costituzione venne ratificata attraverso referendum. Resterà poi l’immagine di Adolfo Suárez immobile e seduto con l’immancabile sigaretta sulle labbra nel primo banco in basso a destra della presidenza nelle Cortes mentre i militari sparano raffiche in alto, ingiungendo ai rappresentanti del popolo di sdraiarsi a terra. Un’icona della giovane democrazia spagnola che allora non ebbe paura.
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