Addio Lugano bella (Einaudi, 2020) completa la trilogia che Massimo Bucciantini considera “tre capitoli di un unico libro”. Assieme a Campo dei fiori, dedicato alle vicissitudini della statua di Galileo a Roma, e a Un Galileo a Milano
, che ricostruisce lo spettacolo di Brecht messo in scena da Strehler al Piccolo Teatro di Milano nei primi anni Sessanta, sono “pezzi di una storia più grande, di un’Italia laica e civile che rischia di essere dimenticata” e che si è sempre battuta in nome delle libertà individuali e di una giustizia sociale per tutti.
In questo volume che prende il nome dal celebre canto degli anarchici e ha per sottotitolo Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, lo storico toscano cerca, come in un esercizio della «Settimana enigmistica», di unire i puntini per offrire un profilo più netto alla figura un po’ sfuggente di Pietro Gori (1865-1911), l’autore della canzone del titolo, e da più di un secolo entrato nel pantheon degli anarchici non solo italiani. Finora però una figura più mitica che reale. Bucciantini lo fa col suo stile di storico rigoroso ma partecipe, indagando in archivi, carte processuali, tornando nei luoghi principali della vita di Gori (Pisa, Milano, Lugano), ponendo la sua figura sul più ampio sfondo dell’Italia di fine Ottocento.
Leggendo il libro mi sono tornate in mente due frasi: il detto “si nasce incendiari, si muore pompieri”, attribuito a Pitigrilli, e il finale del Giornalino di Gianburrasca dove l’avvocato Maralli, zio di Giannino Stoppani, è definito “libero pensatore in città e bigotto in campagna”. Il protagonista di questo libro, a differenza dell’avvocato Maralli, visse e morì da incendiario. Nato da una famiglia della borghesia di una Toscana da poco non più granducale, lottò per tutta la vita dalla parte degli ultimi. Fosse vissuto una generazione prima, quando la borghesia fu per un certo momento una forza rivoluzionaria nel processo di unificazione nazionale, sarebbe forse morto da eroe con i trecento di Carlo Pisacane o sarebbe stato uno dei Mille di Garibaldi.
Per Gori è decisivo l’incontro con l’ambiente pisano, la città dove morì Mazzini nel 1872. Qui frequenta la Facoltà di Legge ma soprattutto incontra i primi circoli anarchici, legge i romanzi di Hugo, Sue, Zola e i testi dei principali esponenti del pensiero anarchico come Kropotkin, Malatesta, Bakunin. Sono gli anni in cui risuona la frase divenuta slogan di Proudhon: “La proprietà è furto”. All’epoca Pisa è una città ribelle, con una decina di circoli anarchici sparsi tra le due sponde dell’Arno; Gori si fa presto notare per i discorsi infuocati nei quali la retorica avvocatizia si sposa alla drammaturgia sociale. Il titolo della tesi è Miseria e delitti. Il passaggio della barricata avviene, nel 1890, in occasione della prima celebrazione del Primo Maggio a Livorno. Gori è tra i principali organizzatori della ribellione che paga con qualche mese di galera. In quel momento il movimento operaio e di protesta si distingue tra socialisti legalitari e socialisti anarchici.
Nel 1891 Gori si trasferisce a Milano, capitale industriale, dove il socialismo sta assumendo la sua fisionomia definitiva. Il personaggio chiave è Filippo Turati, anch’egli avvocato, capostipite di un socialismo "borghese" e riformatore, divenuto poi una componente di rilievo dell’identità cittadina. Gori collabora al suo studio, ma i dissidi tra loro cominciano presto. Turati da poco ha fondato la rivista «Critica sociale», organo ufficiale del marxismo in Italia. Prende quindi malissimo l’iniziativa di Gori di tradurre un po’ artigianalmente il Manifesto del Partito Comunista, poi diffuso in 9.000 copie. Se ne lamenta anzi con Engels. Nel frattempo cresce la popolarità di Gori a Milano, i suoi drammi sono rappresentati al Teatro della Cannobiana. In un rapporto dei carabinieri è descritto “di intelligenza superiore, di modi gentili, non gli è ignoto nessun lenocinio della parola, che ha facile, smagliante, persuasiva; tal che egli esercita un fascino irresistibile sulle classi operaie e diseredate”.
I luoghi di proselitismo sembrano quelle di un quadro impressionista: osterie, bocciofile, luoghi di svago all’aperto. È lì che gli anarchici sono particolarmente attivi. La prospettiva cambia a seguito dell’ondata di omicidi che sconvolge l’Europa tra il 1893 e il ‘94: in un’impressionante sequenza muoiono ministri, teste coronate. Si diffonde, attraverso la figura di Ravachol, l’equazione anarchico = criminale, ed è spesso difficile tracciare un confine tra le parti. Il risultato è che la caccia all’anarchico si inasprisce in tutta Europa. Il presidente del Consiglio Francesco Crispi vara un pacchetto di legge speciali: il disegno generale, seguendo quel che accadeva in altri Paesi europei, è far rientrare i socialisti nell’alveo parlamentare, spingendo gli anarchici ai margini della società, in modo che non potessero più far presa sul popolo, in particolare sulla nascente classe operaia.
A questo punto, superata la metà del libro, Bucciantini introduce un nuovo personaggio: Cesare Lombroso. All’apice della fama, lo studioso torinese che diventerà poi la caricatura dello scienziato positivista, scrive un instant book dal titolo Gli anarchici (1894) la cui tesi è che il fenomeno va prevenuto e non represso perché è da lì che nasce l’esempio. Lombroso è un socialista sui generis e, in ogni caso, le sue idee non collimano con quelle di Crispi. L’influenza di Lombroso sulla società italiana resta forte fino alla Seconda guerra mondiale. Il suo contributo è offrire una giustificazione scientifica alla criminalizzazione dell’oppositore politico rappresentato dall’anarchico (Erika Diemoz).
Tra 1894 e 1900 quattro capi di Stato sono assassinati da anarchici italiani: Gori, pur non avendo nessuna connessione, diventa un bersaglio importante ed è costretto a cercare riparo in Svizzera, a Lugano, cittadina che dai tempi di Carlo Cattaneo, mezzo secolo prima, ha una tradizione di ospitalità verso gli esuli politici italiani, ma il nostro governo preme che venga restituito. Gori viene incarcerato, poi rispedito in Italia, ed è in galera che compone Addio Lugano bella, poesia-ballata che diventa il canto della speranza degli anarchici di cambiare il mondo. Pietro Gori diventa un mito, oggi si direbbe un testimonial delle idee anarchiche, fa conferenze e spettacoli negli Stati Uniti, Inghilterra, Argentina, poi di nuovo in Italia dove si spegne nel 1911. Già dal 1896 anarchici e socialisti si sono definitivamente divisi, le conquiste sociali divengono più importanti della voglia di cambiare il mondo. Sferzante il giudizio di Gramsci: “C’è nel Gori tutto un modo di pensare e di esprimersi che sente di sagrestia e di eroismo di cartone. Tuttavia quei modi e quelle forme, lasciate diffondere senza contrasto e senza critica, sono penetrate molto profondamente nel popolo e hanno costituito un gusto (e forse lo costituiscono ancora)». Gori però parla al cuore delle persone, non solo alla ragione. Forse è anche per questo che si legge questo libro, scritto e organizzato con grande maestria, con passione, pensando che cose accadute più di un secolo fa ancora ci riguardano.
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