Le recenti indagini nei confronti di 191 docenti universitari hanno suscitato reazioni di sdegno «per l’eccessivo risalto mediatico» perché si tratta solo «dello 0,33%» dei 57.000 docenti universitari italiani, ma è ovviamente un fatto che segnala un problema più ampio e le mancate denunce non sono un indice di un buon sistema di selezione. Lo scandalo è in sé una buona notizia perché significa che l’università gode di una buona reputazione e per questo «fa notizia» perché l’aspettativa dell’opinione pubblica è alta: gli universitari non sono considerati solo dispensatori di nozioni, ma maestri, liberi pensatori che possono orientare il Paese pertanto il loro processo di reclutamento è un fattore strategico per l’Italia.
Tuttavia, è bene sapere che il concorso dei docenti universitari in Italia non esiste. Quello che si celebra è solo l’atto formale di un processo di selezione che avviene dentro i dipartimenti oggi e che prima avveniva dentro le facoltà. Quando si arriva all’esame l’esito è già deciso: il vincitore è noto. Questo premia in linea di massima brave persone, competenti, ma non i migliori, i più innovativi. Infatti, nel 90% dei concorsi a vincere è il candidato interno (v. P. Gallina e O. Gallo, Asphyxia of Italian academia in medicine and political deference, “The Lancet”, 396 (10247), 2022, p. 307. Lo stesso trend è confermato da una ricerca in corso condotta dall’associazione Trasparenza e Merito negli atenei di Roma Sapienza, Milano Statale e Napoli Federico II). e il restante 10% a volte sono sempre interni che rientrano da altri atenei in cui sono stati temporaneamente posizionati. Secondo è così risaputo nell’ambiente che ai concorsi spesso si presenta un solo candidato a volte due o tre che sono spinti dallo stesso dipartimento per cercare di salvaguardare la formalità del concorso. Terzo il bando del concorso è scritto generalmente su misura del candidato designato. Quarto il concorso, quando formalmente si svolge, non prevede alcun tipo di processo selettivo, infatti, in generale ai candidati si chiede di presentare in modo discorsivo il proprio percorso e di delineare quello che si intende fare per il futuro. In tutto questo le indagini, le condanne e i ricorsi non hanno sortito nessun effetto: c’è qualche rumor, ma poi tutto procede.
Questo perché c’è nei docenti universitari una sovrapposizione di ruoli e funzioni per cui ogni processo decisionale passa sempre dall’ordinario della disciplina: è nel senato accademico, nelle commissioni di valutazione, nei concorsi, nella didattica, nella terza missione. Si impegna per fare arrivare al suo dipartimento i fondi dal ministero per poter bandire i concorsi e quindi alla fine quello che ottiene lo considera suo.
Nell’università vige la legge del presidente del Gabon: "non si possono organizzare le elezioni in Africa per poi perderle", ossia non si organizzano concorsi se non si è sicuri di vincerli
Quello che preoccupa non è questo tipo di attivismo, ma il «silenzio degli onesti» che trasformano l’università in una corporazione: docenti preparati, impegnati, di sinistra, che studiano le mafie e le disuguaglianze, ma che poi praticano attivamente l’omertà negando di vedere quello che accade sotto i loro occhi. Nell’università vige la legge del presidente del Gabon: «non si possono organizzare le elezioni in Africa per poi perderle», ossia non si organizzano concorsi se non si è sicuri di vincerli. Tuttavia, come racconta un professore di lungo corso che preferisce restare anonimo «se fossi tu a organizzare un concorso prenderesti uno qualunque purché bravo? (bravo in che senso: perché ha scritto cose belle? perché ha pubblicato bene? e se poi è un mascalzone o anche solo lavora poco o bisticcia con tutti?). In sostanza la valutazione concorsuale (scientifica?) non è una valutazione completa che serve a capire se la persona è veramente idonea per l’incarico: se la conosci già, ci hai già lavorato hai meno dubbi (ad es., ti porresti il problema: meglio un po’ meno bravo, ma che faccia per lo meno il lavoro necessario?) considerati gli oneri politico-organizzativi per bandire un concorso (che comporta avere o farsi dare le risorse per poterlo bandire…), ti impegneresti per prepararlo, lo faresti uscire senza avere in mente almeno un candidato idoneo? Se devi organizzare un progetto, un dipartimento, un ambiente di lavoro e hai piacere che questo funzioni (o, più egoisticamente, sei valutato per questo) non fai attenzione al fatto che ci sia affiatamento tra i componenti, o ti va bene uno bravo che si intende magari di cose che per il tuo progetto non sono particolarmente specifiche/utili?».
Carenze di fondi, l’eccessivo squilibrio nel rapporto docenti-studenti, carichi di lavoro e burocrazia non fanno che esasperare il problema di cui gli stessi ordinari sono vittima e in parte artefici. I vari meccanismi di attribuzione delle risorse da parte del ministero siano essi basati su dati storici (numero di studenti, personale, costi di struttura…) o su performance e risultati di ricerca hanno portato (come spiegano N. Fadda et al. in The effect of performance-oriented funding in higher education: evidence from the staff recruitment budget in Italian higher education, “High Educ”, 83, 2022, pp. 1003–1019) «a comportamenti opportunistici, giochi contabili o il cosiddetto effetto San Matteo (chi ha di più ottiene sempre di più e a chi ha di meno viene tolto) con il rischio che l’istruzione superiore diventi gradualmente un mercato dove chi vince prende tutto».
Questo perché più l’università è attrattiva e più finanziamenti riceve dal ministero che sono proporzionali al numero degli studenti. Tuttavia, questa capacità di attrazione deriva in gran parte da fattori esterni (qualità della vita del territorio in cui si trova l’università, opportunità di lavoro in un’area geografica e sistema dei trasporti) che sono solo parzialmente influenzabili dagli atenei. Inoltre, come spiega ancora Fadda il meccanismo di erogazione dei finanziamenti fa sì che le università per aumentare le proprie prestazioni non devono «lavorare sui risultati e sulla qualità della ricerca. Ma, concentrarsi sul rafforzamento della loro efficienza riducendo le spese del personale e i costi di affitto e ampliando le entrate totali (tasse scolastiche e finanziamenti governativi)». Un effetto paradossale di un meccanismo che andrebbe ponderato tenendo conto di più fattori di contesto e performance che attenuino i rischi e le conseguenze di un’ingiusta distribuzione delle risorse.
Ma questo è potremmo dire il pregresso. Per il futuro, oltre a rivedere le modalità di finanziamento degli atenei, potrebbe essere utile avviare, come nella magistratura, una sorta di processo di separazione delle carriere. Attività di ricerca, didattica, terza missione, gestione e attribuzione di fondi, direzione di riviste e collane dovrebbero non sovrapporsi in una sola figura anzi ad un certo punto della carriera il docente dovrebbe prendere una strada prevalente, che non esclude completamente le altre, ma che lo tira fuori da tutti i processi decisionali che possano comportare conflitti di interessi (vedi essere nella commissione giudicatrice di un concorso dove ha più di una pubblicazione in comune con uno dei candidati). Forse così si organizzeranno concorsi dove è possibile che vincano i migliori: che vinca l’Italia e non solo lo 0,33%.
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