È l’8 novembre 2011 quando all’Eicma di Milano (Esposizione Internazionale Ciclo, Motociclo e Accessori), la più importante rassegna espositiva mondiale per il mercato delle due ruote da oltre un secolo (la prima edizione risale al 1914), viene presentata la Ducati Panigale, la nuova moto sportiva da strada che proprio dal quartiere di Bologna dove ha sede la Ducati, Borgo Panigale, mutua il proprio nome. Da allora, la Ducati Panigale verrà prodotta in diverse varianti e cilindrate, quasi tutte (la sola eccezione è rappresentata dalla Superleggera) caratterizzate da un telaio monoscocca, prive dunque del tradizionale telaio a traliccio che è il riconoscibilissimo marchio di fabbrica della Ducati. La Ducati Panigale costituisce un esempio particolarmente significativo della cura per il design – raffinato, sportivo e aerodinamico – per il quale la casa bolognese è famosa e apprezzata in tutto il mondo. Nel 2014 la Panigale 1199 vince il Compasso d’Oro, il premio dell’Associazione per il design industriale, che riconosce alla Ducati e al capo designer Gianandrea Fabbro un ruolo importante nella valorizzazione del design italiano.
La Ducati Panigale non rappresenta solo un’icona di stile ed eleganza, ma anche un caso esemplare dell’eccellenza del design motociclistico italiano in generale
La Ducati Panigale non rappresenta solo un’icona di stile ed eleganza, ma anche un caso esemplare dell’eccellenza del design motociclistico italiano in generale. In un Paese che del design – più che del made in Italy, che ne rappresenta una declinazione più «marketing-oriented» e che sa di retoriche fondate su un’ambigua e fumosa invenzione della tradizione – ha fatto un elemento di riconoscimento e riconoscibilità in tutto il mondo, il genio creativo di nomi come Massimo Tamburini, padre della Ducati 916 e della MV Agusta F4 (due icone stilistiche tuttora attualissime), è apprezzato e celebrato tra gli appassionati del motociclismo come del disegno industriale tout court. Un campo di eccellenza italiana che non si limita alle motociclette propriamente intese, ma si estende a veicoli su due (o tre) ruote che hanno avuto uno straordinario successo planetario come la Vespa e la Lambretta, assurte ad esempio a feticcio iconico per la sottocultura mod nell’Inghilterra degli anni Sessanta, le cui pratiche oppositive e resistenziali rispetto alla cultura dominante, caratterizzate da una provocatoria spettacolarità, ruotavano (è il caso di dirlo) proprio attorno ai due scooter italiani; o all’Ape Piaggio, un veicolo «globale» che, nelle sue ridefinizioni locali, si trasforma nella Lapa dell’Italia meridionale, nel Riksha indiano e nel Tuk-Tuk egiziano, dove diventa un pratico e coloratissimo moto-taxi.
Tuttavia, rispetto a motoveicoli come questi, che pure si sono imposti nell’immaginario dell’industria culturale e nelle pratiche quotidiane degli utenti di tutto il mondo, le moto sportive italiane come la Panigale si distinguono per la loro capacità di unire le alte prestazioni a un design che avvicina l’artigianato al mondo dell’arte. Un equilibrio che, nel caso delle motociclette, è particolarmente difficile da ottenere: dopotutto, la moto stessa è un oggetto dall’equilibrio instabile, o meglio ancora è un veicolo dalla stabilità paradossale, dal momento che è più stabile alle alte velocità che a quelle basse; questo precario equilibrio si riflette nello sviluppo del design motociclistico, che può essere considerato come una serie continua di soluzioni a problemi meccanici pratici – oltre alla questione, che nel caso delle moto viene sempre considerata essenziale (molto più, ad esempio, che nel caso dell’auto), della sicurezza del mezzo e del conducente.
In questo senso, le case motociclistiche italiane hanno prodotto nel corso dello scorso e di questo secolo alcuni tra i dispositivi di potenza e bellezza più apprezzati nel mondo, facendone uno strumento di appartenenza identitaria (sia a livello individuale che a livello nazionale), un’icona della pop culture e un raffinato oggetto estetico. Non è un caso che l’unica avanguardia artistica nata nel nostro Paese, il Futurismo, abbia esaltato le qualità della motocicletta proprio nella sua capacità di unire la dimensione estetica con la velocità: da Giacomo Balla (Velocità di motocicletta, 1913, e Moto girante, 1914) ad Achille Funi (Il motociclista, 1914), da Fortunato Depero (Solido in velocità, 1923) a Mino Rosso (Il motociclista, 1931), i futuristi individuano nella moto una delle principali icone del culto dell’accelerazione, all’interno di quella fascinazione per la velocità di inizi Novecento che un autore come Simmel pone a fondazione dell’esperienza stessa della modernità. Il legame con il Futurismo evoca peraltro anche quello con la propaganda politica: nell’Italia fascista la diffusione della moto, considerata l’incarnazione dell’ideale di virilità e di bellicosità – nonché un veicolo adatto a risolvere i problemi di mobilità del Paese –, venne favorita da una serie di provvedimenti promossi dallo stesso Mussolini, mediante una retorica che univa l’estetizzazione della tecnologia all’estetizzazione della politica.
Le case motociclistiche italiane hanno prodotto alcuni tra i dispositivi di potenza e bellezza più apprezzati nel mondo, facendone uno strumento di appartenenza identitaria, un’icona della pop culture e un raffinato oggetto estetico
Un altro importante aspetto evocato dal Futurismo è quello dell’unicum meccanico tra moto e motociclista: nell’opera di Depero che abbiamo citato prima, Solido in velocità, il motociclista è metallico quanto la moto che guida, a suggerire il nesso tra l’umano e la macchina. Non è forse un caso che il termine «centauro», che sta a indicare appunto chi va in moto, compaia nella sola lingua italiana: il riferimento a questa figura mitologica metà umana e metà equina non ricorda solo l’irriducibile unità tra moto e motociclista, ma evoca anche tutta una serie di suggestioni legate alla fusione tra animalità e umanità, passione e razionalità (i centauri sono per lo più esseri mostruosi, ma tra le loro file compare anche Chirone, il saggio maestro di dei ed eroi della mitologia greca), riferite a quella stessa cultura classica che fa parte anch’essa, come l’eccellenza nel design, di una supposta «italianità».
Dopotutto, se l’estetica della moto è ovviamente fondamentale, per il designer è altrettanto essenziale tenere sempre a mente la «metà superiore» della moto: chi la guida. Il/la motociclista è (deve essere) sempre presente nello sviluppo stilistico del designer, e questo ci ricorda non solo che, per essere apprezzata esteticamente, la moto va guidata, ma anche che c’è tutto un altro settore parallelo a quello del design dell’elemento meccanico in sé: il design riferito all’elemento umano – la moda. In questo modo, l’«italianità» del raffinato design motociclistico italiano si lega anche all’eccellenza del nostro Paese nel campo della moda. E questo non solo perché, in generale, la tecnologia della moto ha una genesi comune con quella dell’industria tessile (la meccanica delle ruote della moto è debitrice, in una maniera poco ovvia e contro-intuitiva, ai filatoi automatizzati sviluppati nel corso della rivoluzione industriale, quegli stessi filatoi automatizzati che producono oggi gli indumenti necessari per andare in moto), ma anche per la presenza di importanti stilisti italiani impegnati nella produzione di abbigliamento motociclistico (una mostra allestita al Phoenix Art Museum in Arizona nel 2004 presentava modelli esclusivi di nomi come Roberto Cavalli, Moschino e Dolce & Gabbana), nonché di case specializzate che sono leader nel mondo per i loro prodotti di avanguardia (come nel caso di Dainese, che, oltre ad avere introdotto nel mondo delle competizioni motociclistiche la prima protezione dorsale, ha vinto il Compasso d’Oro nel 2001 per la tuta da moto «T-Age», disegnata da Aldo Drudi).
Se l’identità italiana e l’«italianità» sono il risultato di una produzione (e riproduzione) sociale e culturale, allora l’industria e il design motociclistici fanno parte a pieno titolo di questa straordinaria macchina mitopoietica di costruzione della Nazione. Dalle avanguardie artistiche alle filiere produttive, e più in generale dalle pratiche quotidiane alle rappresentazioni dell’industria globale dell’immaginario, la motocicletta costituisce un «basso continuo» la cui presenza, così pervasiva nelle nostre strade e nelle nostre città, definisce una vera e propria mappatura – mitica e rituale – della Nazione. Quella dell’8 novembre 2011 non rappresenta certo la data fondativa di questo mito (che, come tale, non ha tempo), ma ne costituisce una tappa importante nella continuità di tale narrazione, fondata sulla ripetizione e la ciclicità che sono proprie dei riti della religione civile.
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