I capelli stretti da un fazzoletto alla corsara, seduta in mezzo alle compagne, Gigliola Pierobon ascoltava con amarezza i giudici del Tribunale di Padova emettere la sentenza del processo che la coinvolgeva come imputata, quella sera del 7 giugno 1973. L'accusa era di aver abortito. Il verdetto dei giudici fu un perdono giudiziale, in virtù «della profonda pietà che non può non rivolgersi verso chi si trovi moralmente impreparata ad affrontare problemi implicanti un generoso e duro sacrificio» e «della resipiscenza dimostrata con la consapevole accettazione di una seconda maternità». «Il loro perdono non lo voglio: non mi sento colpevole», avrebbe dichiarato lei poco dopo al «Corriere della Sera».
Si era fatto tardi, i giudici avevano emesso la sentenza dopo quattro ore e mezzo di camera di consiglio. Il corteo delle donne arrivate da tante città era finito, ma fuori erano rimaste molte militanti ad aspettarla, nonostante le provocazioni di alcuni gruppi di estrema destra che roteavano minacciosi le cinghie. A difendere Pierobon, infatti, non era stata soltanto l'avvocata Bianca Guidetti Serra (nome importante per il femminismo e la storia partigiana), ma anche le compagne di movimento che con lei quel giorno, a Padova, avevano gridato «Abbiamo tutte abortito!». Perché quello non era il processo per aborto della sola Gigliola. Doveva essere il processo per tutti gli aborti, quelli delle tante, troppe italiane che nella clandestinità si rivolgevano alle mammane, a medici prezzolati o che semplicemente facevano da sole, sul tavolo della cucina. Nella solitudine, nella vergogna, nel dolore e nella paura. Una gravidanza non voluta, spesso dettata dalla disinformazione e da una mancata contraccezione, diventava un dramma, specialmente per quelle che un aborto all'estero o in una clinica privata non potevano permetterselo: a loro restava solo il ferro da calza e il rischio di una perforazione dell'utero, di una infezione pelvica o di una emorragia. Era un processo politico, quello contro Gigliola Pierobon, che però i giudici si rifiutarono di vedere come tale.
I fatti risalivano a sei anni prima, quando a soli 17 anni, sul tavolo da cucina di una levatrice, per 30 mila lire, senza anestesia né antibiotici per i giorni successivi, quella povera figlia di contadini aveva messo fine a una gravidanza tanto indesiderata quanto inaspettata. Poi, con le ginocchia che tremavano e il dolore per la sonda, se ne era tornata a casa, per un buon tratto persino in bici, verso il suo paese, San Martino di Lupari, neanche 10 mila anime all'epoca. Lì la aspettavano, del tutto ignari della gravidanza, i suoi genitori. I giorni successivi furono segnati da dolorosissime complicanze, come racconta lei nella sua autobiografia politica, ma tecnicamente la cosa andò a buon fine. Fu però richiamata dalla Procura anni dopo, per via del contatto con quella levatrice e di una inchiesta che si era aperta su altri fronti. E fu così che la giovane aveva confessato, raccontando per filo e per segno come e quando aveva abortito. Iniziarono le domande dettagliate sulla procedura abortiva (spesso pretestuose, su gesti e posizioni), si effettuarono perizie (anche ginecologiche, dopo quattro anni dai fatti, su un corpo nel frattempo aveva partorito un bambino), si indagò sulla sua vita sentimentale (il matrimonio, la separazione) cercando di minarne l'immagine e la dignità.
Il 5 giugno si apriva un processo che, all'epoca, veniva paragonato a quello francese di pochi mesi prima, il Processo di Bobigny. Anche quello aveva coinvolto una giovane donna, pure minorenne quando aveva abortito, e aveva portato il Parlamento d'oltralpe a discutere di legalizzazione dell'aborto e di pillola anticoncezionale. «Da noi, invece, com'è ben noto il Parlamento non trovò mai il tempo, o il coraggio, di affrontare l'argomento», osservava il «Corriere della Sera» il 31 maggio 1973. In realtà, gli elementi di differenza tra i due processi sono tanti, come osserverà la stessa Pierobon in Il processo degli angeli (Tattilo, 1974) e come ricorda ad esempio Lorenza Perini (Il corpo del reato, BraDypUS, 2014). A differenza del caso francese, il processo di Padova fu portato avanti con pochi mezzi, fece meno discutere, non si ascoltarono i testi chiamati dalla difesa a ricostruire il contesto socio-culturale ampio in cui si trovavano le donne e il corpo di Gigliola Pierobon fu «l'orizzonte unico del dibattimento» (Perini, cit., p. 24).
Certo, le donne di aborti ne sapevano già bene, e molte avevano iniziato a parlare. Alcuni gruppi femministi promuovevano il self-help e insegnavano ad abortire da sole, altri organizzavano viaggi verso le cliniche. La rivista «Noi Donne» aveva condotto delle inchieste già nei primi anni Sessanta, e ugualmente delle militanti avevano iniziato a raccogliere i racconti di contadine, operaie, studentesse e casalinghe dei loro aborti, tutti accomunati dalla paura e da indicibili sofferenze. Il segreto che tutti sapevano veniva a poco a poco alla luce. Gli anni subito successivi al processo Pierobon avrebbero visto una accelerazione in questo senso. Nel 1974, a seguito della morte in ospedale di una ragazza a causa delle complicazioni di un aborto clandestino, il Tribunale di Torino aveva incriminato centinaia di donne per procurato aborto, dopo averne acquisito le cartelle cliniche. Nel gennaio del 1975, «l'Espresso» assieme alla Lega 13 Maggio, intraprendeva una campagna per promuovere un referendum abrogativo degli articoli del codice penale che vietavano l'interruzione di gravidanza. In quello stesso anno, una sentenza della Corte costituzionale apriva la strada al legislatore per una prima depenalizzazione dell'aborto, mentre d'altra parte venivano arrestati Gianfranco Spadaccia, segretario del Partito Radicale e Adele Faccio del Cisa (Centro informazioni sterilizzazione e aborto), autodenunciatisi per procurato aborto. Per non dire del ruolo che giocarono anche i fatti di Seveso del 1976. Lo scoppio di un reattore della fabbrica chimica Icmesa rilasciò nell'atmosfera una nube di diossina, una sostanza che oltre a provocare numerosi ricoveri nei giorni successivi poteva causare gravi malformazioni fetali. Il che permise, quanto meno per le donne della zona, di rivolgersi ai ginecologi della Mangiagalli e di ricorrere all'aborto terapeutico. Insomma, il Parlamento non poteva più tacere di fronte al dramma dell'aborto clandestino, per quanto divisivo fosse l'argomento.
D'altra parte, già qualche mese prima del processo a Gigliola Pierobon, un disegno di legge (primo firmatario Loris Fortuna, il deputato socialista che con Baslini aveva firmato la legge sul divorzio solo tre anni prima) aveva proposto di depenalizzarlo. E altri disegni di legge sarebbero di lì a poco seguiti, avanzati da socialdemocratici, comunisti, repubblicani e liberali. Eppure solo nel 1978 anche il nostro diritto si doterà di una legge sull'interruzione volontaria di gravidanza, la legge 194. Una legge importante, che ha portato grandi risultati (come racconto qui), primo fra tutti l'uscita dalla clandestinità dell'aborto e la sua messa in sicurezza. «Si ricorrerà all'aborto con superficialità», «si userà l'aborto come anticoncezionale», diceva chi la osteggiava. La storia dimostra che così non fu: il tasso di abortività è sceso ovunque e rapidamente. Se nel 1982 il tasso di abortività era di 17,2 Ivg ogni 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni, nel 2016 è stato di 6,5: un taglio del 64% che pone l’Italia tra i Paesi occidentali oggi a più bassa abortività.
È certo cambiata la cultura contraccettiva del Paese, in cui la separazione fra sessualità (sempre più precoce) e genitorialità (sempre più tardiva) ha visto estendersi il periodo di vita sessuale attiva in cui si utilizzano metodi anticoncezionali efficaci e sicuri. Ma quella legge, pur frutto di compromesso (che lasciava molte insoddisfatte: si pensi alle critiche che fece Carla Lonzi a riguardo, o ai vivaci dibattiti sulla rivista Effe), pur ostacolata nella sua piena applicazione, resta una legge che ha dato e dà buoni risultati. E oggigiorno, che il diritto a interrompere una gravidanza non voluta è rimesso in discussione da molte forze politiche, nel nostro Paese e non solo, sembra quasi d'obbligo rinnovare la memoria di quell'Italia in cui abortire era un reato. Perché il dramma di Gigliola non torni a essere l'incubo delle nostre figlie.
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