Capita a certi politici di avere la fortuna di legare indissolubilmente al proprio nome un atto normativo da loro promosso, che passa così ai posteri in questa forma.
Era successo ad esempio all’inizio degli anni Cinquanta con la riforma fiscale del ministro Ezio Vanoni e il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, ha avuto più o meno la stessa sorte: recava in rubrica «Attuazione delle direttive 91/156/Cee sui rifiuti, 91/689/Cee sui rifiuti pericolosi e 94/62/Ce sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio» ma per tutti è diventato subito il «decreto Ronchi», dal nome del senatore Edo Ronchi, allora ministro dell’Ambiente, sotto la cui guida era stato elaborato ed emanato. Tanto forte fu l’identificazione tra norma e uomo che, seppur abrogato dal d.lgs n. 152/2006 (il c.d. «Codice Ambientale»), per almeno un decennio è stato ancora qua e là erroneamente richiamato non come riferimento normativo storico, ma come vera e propria fonte vigente.La legislazione in materia nel nostro Paese è avviata in piena Seconda guerra mondiale con la legge n. 366 del 1941, che dimostra l’interesse delle autorità fasciste per recuperare dagli allora pochi e poveri rifiuti qualcosa di ancora utile per la produzione
I rifiuti italiani hanno quindi una storia «prima del Ronchi» e un’altra «dopo il Ronchi».
La legislazione in materia nel nostro Paese è avviata in piena Seconda guerra mondiale con la legge n. 366 del 1941, che dimostra l’interesse delle autorità fasciste per recuperare dagli allora pochi e poveri rifiuti qualcosa di ancora utile per la produzione, sulla spinta non tanto di motivazioni ambientali quanto delle necessità dell’economia bellica già votata all’autarchica dopo le sanzioni «abissine», come conferma anche un eccezionale filmato dell’Istituto Luce del medesimo periodo, che mostra un vero e proprio grande impianto di selezione pubblico in funzione alle porte di Roma per recuperare rifiuti metalli e stracci.
L’atto di nascita del sistema di gestione «moderno» dei rifiuti in Italia è però il dpr n. 915 del 1982, che pone le basi per una gestione industriale regolata su tutto il territorio nazionale dell’intero ciclo dei rifiuti sia urbani sia speciali e pericolosi, in un’ottica ancora chiaramente orientata allo smaltimento cui tutte le fasi operative sono esplicitamente finalizzate, anche se vi viene precisato che, tra queste, il trattamento è da intendersi come «operazione di trasformazione necessaria per il riutilizzo, la rigenerazione, il recupero, il riciclo».
Prima di arrivare al fatidico decreto Ronchi, tuttavia, c’è un passaggio preliminare, dai più dimenticato, che rappresenta un primo passo concreto verso la prevenzione e il recupero di materia. La legge n. 475 del 1988 aveva introdotto una prima misura di penalizzazione dei consumi ritenuti «non sostenibili» tassando i sacchetti di plastica, e aveva anche imposto ai produttori di batterie e di contenitori per liquidi di creare consorzi nazionali obbligatori per la raccolta differenziata e l’avvio a riciclo dei prodotti da loro stessi immessi sul mercato, anticipando di fatto il principio della responsabilità estesa del produttore. È peraltro proprio dall’esperienza del consorzio per i contenitori per liquidi in plastica (Replastic, quello che si era più sviluppato) che il ministro Ronchi, nove anni dopo, attingerà a piene mani per strutturare il sistema di gestione degli imballaggi nei diversi materiali.
È però nel 1997 che si entra nella nuova era e che, soprattutto, la percezione del cambiamento in corso esce dallo stretto ambito degli addetti ai lavori. La Comunità europea aveva negli anni precedenti emanato tre direttive dal forte impianto innovativo e finalmente orientate a superare la centralità dell’idea di «smaltimento» per introdurre i principi e i meccanismi di quella che sarà definita «circolarità». Il decreto Ronchi nasce quindi come loro recepimento, in un momento in cui l’Italia già da anni vive in molte sue regioni più o meno cicliche «emergenze rifiuti» (da quella quasi dimenticata del 1995 a Milano e provincia all’«emergenza» per eccellenza, che è quella più che decennale di Napoli e della Campania, passando per quelle della Sicilia, della Puglia e della Calabria, senza contare la perpetua precarietà che attanaglia ancora oggi la città di Roma).
In questo scenario, l’emanazione di una norma che pone la prevenzione dei rifiuti come premessa, riduce, almeno nelle intenzioni, lo smaltimento ad opzione residuale stabilendo che «i rifiuti da avviare allo smaltimento finale devono essere il più possibile ridotti potenziando la prevenzione e le attività di riutilizzo, di riciclaggio e di recupero» e «universalizza» gli obblighi per i produttori e gli utilizzatori degli imballaggi in tutti i materiali (ma anche di beni durevoli, veicoli fuori uso, beni in polietilene e grassi vegetali ed animali) ponendo loro obiettivi quantitativi di recupero e riciclo, non può non assumere una valenza paradigmatica che va anche al di là dello stretto dettato normativo.
La raccolta differenziata, individuata come strumento-cardine del nuovo assetto, diviene così in breve tempo un vero e proprio «indicatore di valore civico» che scatena la competizione tra i Comuni sulle percentuali raggiunte, spesso per altro dimenticando che si tratta solo di uno strumento mentre il fine è il riciclo, per cui la valutazione dovrebbe tenere conto anche, se non soprattutto, della sua qualità e quindi della sua effettiva riciclabilità piuttosto che dei dati di raccolta nudi e crudi. Si può forse dire che in nessun Paese d’Europa e del mondo sia stata posta tanta enfasi sulla raccolta differenziata.
Sta di fatto che, al di là di disparità territoriali ataviche che si traducono anche in carenze della «macchina pubblica» nell’offrire e gestire servizi di qualità, la raccolta differenziata è entrata nel «lessico famigliare» ed è divenuta una pratica quotidiana pressoché universale delle famiglie italiane. Secondo l'Istat (2019), nel 2018 l’87,1% delle famiglie ha effettuato con regolarità la raccolta differenziata della plastica (era il 39,7% solo vent'anni prima), il 71,3% dell’alluminio (27,8%), l’86,6% della carta (46,9%) e l’85,9% del vetro (52,6%). Questo ha permesso di conseguire risultati di tutto rilievo anche a livello continentale, nonché di alimentare un comparto industriale in continuo sviluppo.
Una degli obiettivi del decreto Ronchi era infatti anche quello di indurre la crescita di un vero e proprio settore industriale del recupero e del riciclo, ponendo le basi di quella che sarà poi chiamata «circular economy». Questo obiettivo è stato, come detto, di fatto raggiunto, anche a prezzo di creare talvolta situazioni di frizione e di potenziale distorsione competitiva tra il mercato preesistente e quello indotto dai nuovi sistemi consortili, che però hanno avuto l’indubbio merito di consentire la continuità e la certezza del recupero anche laddove o nelle fasi in cui il mercato da solo non sarebbe stato in grado di assicurarlo. Contrariamente a quanto forse pensava Ronchi, l’Italia, paese strutturalmente povero di materie prime, aveva già per molti materiali un fiorente settore «privato» del recupero e del riciclo, anche se prevalentemente rivolto ai rifiuti speciali piuttosto che a quelli urbani.Uno degli obiettivi del decreto Ronchi era infatti anche quello di indurre la crescita di un vero e proprio settore industriale del recupero e del riciclo, ponendo le basi di quella che sarà poi chiamata "circular economy"Oggi l’abrogato d.lgs 22/97 è trapassato nel «Codice ambientale», l’economia circolare è punto centrale di ogni agenda politica e l’allarme per la proliferazione incontrollata delle merci che si trasformano in rifiuto è divenuto quasi un luogo comune (si pensi alla pervasiva campagna di denuncia e delegittimazione della plastica). L’Unione Europea ha stabilito una «gerarchia dei rifiuti» composta da cinque opzioni che vede al primo posto sic et simpliciter la loro «non produzione» (il miglior rifiuto è quello che non c’è) e il riciclo solo al terzo (al secondo c’è il riutilizzo, al quarto il recupero sotto forma di energia, al quinto – esclusivamente come forma residuale – lo smaltimento in discarica).
È da questa gerarchia che bisogna partire per immaginare un futuro non tanto «a rifiuti zero» (per il secondo principio della termodinamica ogni sistema produce dissipazione e, quindi, ogni società ha sempre prodotto e sempre produrrà scarti…) quanto «verso rifiuti zero», in grado di intervenire alla fonte sui processi di produzione, distribuzione e consumo per minimizzarli e, al contempo, per massimizzare la rigenerazione di quelli che comunque si producono.
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