Alcuni fogli tenuti insieme ad altri dal punto di una spillatrice, le parole battute a macchina, l’inchiostro ormai sbiadito dal tempo. Una data, giugno 1951. Una città, Fano. Un numero di serie, uno. Così si presenta il primo Bollettino informazioni della «Tipografia a scuola»: un gruppo di maestre e maestri che si sono riuniti per mettere in pratica, anche in Italia, le proposte didattiche di un maestro comunista, Célestin Freinet. Si chiamano Giuseppe Tamagnini, Anna Fantini, Aldo Pettini. Convinti che la democrazia a scuola si costruisca attraverso la didattica e non l’ideologia, si impegnano a diffondere le tecniche Freinet che si mettono in pratica senza la necessità di particolari materiali e, soprattutto, di spazi ben organizzati. Pure una spelonca buia va bene, a patto che ci sia un maestro che ha voglia di sperimentare: i bambini faranno il resto. Il 4 novembre di quello stesso anno decideranno di chiamarsi Cooperativa della tipografia a scuola.

L’idea di portare le novità didattiche in scuolette di campagna qualsiasi e non in «scuole nuove» di città, dove la sperimentazione è più normale, è venuta a un insegnante dell’Istituto magistrale di Fano, già maestro: si chiama Giuseppe Tamagnini, è un ex partigiano, un comunista, è convinto della necessità di fare qualcosa, subito, a scuola. La grande riforma che chiede anche il suo partito si farà, nel frattempo la rivoluzione va fatta in classe, ogni giorno.

La «tipografia a scuola» diventa lo strumento base di cui dotarsi per lavorare sul giornalino scolastico, che non è solo una cronaca minuta della vita quotidiana di una comunità, ma anche il primo passo verso una inedita presa della parola da parte dei bambini. Insieme alla «tipografia» un altro strumento di lavoro fondamentale è la corrispondenza fra scuole, ossia lo «schedario cooperativo», che consiste in materiali di lavoro autoprodotti e necessari, dato che i manuali scolastici sono ancora completamente privi di agganci alle nuove teorie pedagogiche, ma soprattutto a quel fatto nuovo che è, nel 1951, la democrazia.

Infine, pensano i fondatori di questo singolare gruppo, occorre preparare un congresso, presto, a Firenze, entro il 1952, nel quale decidere cosa essere, come chiamarsi, cosa diventare. Che il convegno vada fatto nel capoluogo toscano è chiaro a tutti: la città è, in quegli anni, la culla del rinnovamento pedagogico italiano, grazie al lavoro di Ernesto Codignola, di Lamberto Borghi e del gruppo che ruota intorno alla rivista «Scuola e città». È qui che era apparso il primo saggio di Freinet, presentato come «un maestro che ha dovuto fare i conti con la realtà».

Seppure, dunque, prenda le mosse dalla ricerca della scuola fiorentina, il gruppo di Fano immediatamente intraprende una via autonoma. «Non leggiamo solo libri ed ascoltiamo conferenze: apriamo le finestre e guardiamo fuori se c’è qualcosa di interessante e di attuale da fare», scriverà Aldo Pettini a proposito di questi inizi. Non leggiamo solo libri. La distanza fra la teoria pedagogica appresa sui libri e la presenza in classe diventa il tema intorno a cui ruota tutta la riflessione dei primi aderenti al Cts, che non hanno una scuola sperimentale in cui insegnare – come è la Scuola città Pestalozzi di Firenze – ma scuole spesso scalcagnate, con bambini i cui genitori, al meglio, i figli li mandano a scuola invece di mandarli a lavorare, ed è già tanto.

Il problema dei maestri e delle maestre, ma anche dei professori e delle professoresse, in questi primi anni Cinquanta, è quello di trovare punti di riferimento concreti per entrare in classe in modo democratico e non solo con idee democratiche

Da subito emergono critiche all’approccio empirico degli insegnanti della Cts: «Educazione, si dice, non è tecnica». Risponde Tamagnini: d’accordo, come non è tecnica la musica o l’architettura o la pittura; «ma, mentre, pur sottolineando che l’arte in sé non è tecnica, nessuna persona di buon senso direbbe che non esiste una tecnica del costruire, la tecnica del dipingere, del suonare eccetera, nel campo invece dell’educazione non tutti sono disposti ad ammettere che vi sia una tecnica dell’educare».

Ma, vale la pena sottolinearlo ancora, il problema dei maestri e delle maestre, ma anche dei professori e delle professoresse, in questi primi anni Cinquanta, è quello di trovare punti di riferimento concreti per entrare in classe in modo democratico e non solo con idee democratiche.

L’attività del gruppo di Fano entra in sintonia con quanto scritto da Raffaele Laporta, già attivo collaboratore di «Scuola e città». Laporta ha pubblicato un articolo nel quale pone il problema della scuola media italiana: così come alle elementari, anche alle medie si evidenzia l’assenza assoluta negli insegnanti della consapevolezza dell’esistenza di una ricerca relativa al problema educativo, in una parola, della pedagogia. E le cose non vanno meglio nelle scuole superiori. Nora Giacobini, che insegna a Montapoli, vicino Pisa, scrive una lettera molto lucida nel marzo del 1952 per dire che il problema è evidente quando si guarda da vicino quello che accade negli istituti magistrali: «Qui i futuri maestri si trovano continuamente divisi tra lo studio che essi fanno dei moderni contemporanei indirizzi di ricerca pedagogica e la stessa vita di scolari che si svolge lontanissima da tutto quanto viene ad essi prospettato come la migliore conquista dello spirito umano in questo campo». Pare di entrarci nella classe di Giacobini quando uno dei suoi ragazzi, malinconico e serio, le chiede: «Queste belle teorie pedagogiche che studiamo a cosa servono?».

Da allora il gruppo, che poi prende il nome di Movimento di cooperazione educativa, ha fatto tanta strada, contribuendo, dal basso, alla trasformazione in senso democratico della scuola pubblica italiana, dall’infanzia alle scuole superiori. Le battaglie del Mce (dal tempo pieno ai laboratori sulla lingua tenuti da Tullio De Mauro a partire dai tardi anni Sessanta, al testo libero, e ricordiamo Mario Lodi e il suo impegno) sono state tutte fatte in nome di una didattica che guardasse ai bambini e alle bambine, e anche ai ragazzi e alle ragazze, come oggetto ma anche soggetto dell’ora di lezione, a partire da quello che fin dall’immediato dopoguerra Francesco De Bartolomeis e Bruno Ciari, fra gli altri, hanno definito il metodo della ricerca.

Quello che qualcuno ha chiamato, disprezzandolo, «didatticismo» è stato, per un secolo, un modo concreto e trasversale di dare una risposta alle trasformazioni del proprio tempo, andando avanti, a volte in modo spedito, a volte a tentoni – che poi è così che si impara, anche da insegnanti, come sosteneva Célestin Freinet. Il risveglio della ricerca sulla didattica nel Dopoguerra ha anzi rappresentato un nuovo umanesimo, come ha scritto Francesco De Bartolomeis, «sempre che in primo luogo pensiamo non ai grandi libri esemplari, cioè i classici, ma allo sviluppo della umanità che è negli allievi. Questo mutamento di significato è essenziale per superare un equivoco che dura da secoli intorno a ciò che è umanistico». La lettura di un testo come Democrazia ed educazione di John Dewey suggerisce il binomio fantastico per tanti giovani maestri: «In quel testo noi trovavamo come un’illuminazione sui tanti problemi che affollavano le nostre menti e i nostri desideri».

Quello che qualcuno ha chiamato, disprezzandolo, "didatticismo" è stato, per un secolo, un modo concreto e trasversale di dare una risposta alle trasformazioni del proprio tempo

Oggi la lezione di questi insegnanti ci è utile per riflettere sul valore rivoluzionario della pratica. Scriverà Gianni Rodari, a proposito: «Il primo giorno di scuola, nella prima classe secondo il Mce, è il giorno dei primi testi liberi orali. Il bambino è venuto a scuola per ascoltare e si trova a parlare, mentre il maestro lo ascolta. È venuto a scuola per obbedire, ed è il maestro che obbedisce, con delicatezza e saggezza, ai suoi suggerimenti. Se egli si distrae a guardare un passero sul tetto della casa di fronte alla scuola, il maestro non lo rimprovera, ma va con lui alla finestra, anche lui guarda il passero, la parete tra la scuola e il mondo di fuori è già abbattuta, già negata. Se egli guarda la pioggia che cade, anche il maestro guarda la pioggia con lui. Non sto inventando: ho già citato Cipì, ho già citato Il paese sbagliato, due testi nati dalla capacità di partire realmente dalle esigenze del bambino, per portare il bambino a vivere più in alto, a vedere di più. Il primo giorno di scuola è il giorno della prima parola scritta, della comunità al suo primo incontro. È il giorno della prima parola stampata, che rende il bambino un creatore di cultura. Quella parola significa che egli non dovrà semplicemente adeguarsi a un'organizzazione prefabbricata, a una disciplina imposta, a una società, qualunque essa sia, già fondata per sempre, ma potrà, anzi, dovrà lui, con i suoi compagni, con il maestro, creare le regole e i valori della comunità da costruire nella classe. Abbia egli scritto “piove”, o “brilla il sole”, o “il pesce nuota”, in realtà egli ha scritto, sperimentato e interiorizzato la parola “libertà”. Questo, direbbe Bruno Ciari, è il punto». E continua ad esserlo.