Quando Sara Simeoni si prepara in pedana, sulla tribuna, a eseguire quel salto che segnerà il nuovo primato mondiale, ci sono i suoi familiari ma pochissimi giornalisti. È il 4 agosto 1978, siamo a Brescia per un meeting estivo fra due nazionali, Italia e Polonia. Le attenzioni mediatiche sono altrove: concentrate sulle gare di atletica maschile che si svolgono a Venezia, con un occhio alle elezioni per la presidenza del Coni.

Sara ha 25 anni e non è una sconosciuta, quantomeno per chi si occupa di sport: aveva già migliorato il record italiano del salto in alto una ventina di volte: la prima a 17 anni, nel 1970, aveva saltato 1,71; l’ultima, 1,97, proprio nel luglio del 1978. In mezzo, l’argento olimpico a Montreal nel 1976. Nonostante i suoi risultati, l’Italia non era pronta a quel 2,01. Non era preparata a vedere una donna superare il muro dei 2 metri per la prima volta nella storia, per giunta saltando anche con una tecnica piuttosto recente, il Fosbury, in cui il salto dell’asticella veniva eseguito di schiena e non frontale.

Quando Sara prende la ricorsa, stacca, salta e atterra di schiena sul grande materasso senza essere seguita dall’asticella, succedono due cose. Primo, segna il nuovo primato mondiale, che rimarrà tale fino al 2007. Secondo, lo sport femminile inizia a esistere in Italia. Accanto ai successi di Pietro Mennea, da quel giorno ci sono anche quelli di Sara Simeoni; poi arriveranno quelli di Di Centa, Belmondo, Compagnoni, fino a May, Vezzali, Pellegrini, Vio. Una genealogia che inizia con quel 2 metri e 01, con le pagine dei giornali che cominciano a raccontarlo, con le televisioni che lo seguono, con le atlete che finalmente hanno una scena.

Lo sport femminile inizia a esistere in Italia con quel salto di Sara Simeoni; poi arriveranno quelli di Di Centa, Belmondo, Compagnoni, fino a May, Vezzali, Pellegrini, Vio

Per i media italiani non sarà facile ricostruire la giornata di quel 4 agosto: le testimonianze non sono molte e Sara non era un’atleta di molte parole. Non lo diventerà mai, rimanendo lontana dai riflettori durante tutta la sua carriera agonistica. I giornali si faranno trovare maggiormente pronti quando Simeoni ripeterà la misura da record ai Mondiali di Praga il 31 agosto di quello stesso anno e seguiranno in diretta l’oro olimpico che arriverà a Mosca nel 1980 fino all’argento a Los Angeles nel 1984.

Il racconto dello sport femminile è un tema centrale ieri come oggi, non solo in Italia. Se si sfogliano le pagine dei principali quotidiani sportivi, il calcio maschile occupa uno spazio significativo, seguito da discipline “minori” che variano a seconda della linea editoriale della testata. C’è anche qui un tratto comune: i racconti di sport sono perlopiù declinati al maschile; le atlete, se non davanti a grandi eventi, importanti vittorie o notizie sulla loro vita personale, non trovano spazio, sono trafiletti o rubriche nel giornalismo sportivo.

Un gap mediatico che si declina in più dimensioni: in tema di visibilità, certo, ma anche nel differente modo in cui si rappresentano atlete e atleti, o nei linguaggi utilizzati. Anche cambiando prospettiva e guardando a chi quel racconto lo produce, la scarsa presenza delle giornaliste sportive è una costante. Ma la rappresentazione mediatica è uno specchio di come lo sport è stato definito e costruito nel corso del tempo: nasce come uno spazio maschile, da cui le donne sono state escluse a lungo. Agonismo, fatica, forza, controllo venivano considerate prerogative esclusive del genere maschile. Non per caso, le atlete hanno preso parte per la prima volta a un’Olimpiade solo nel 1900, a Parigi: una partecipazione limitata ad alcune discipline considerate appropriate e femminili (risulteranno il 2,2% dei partecipanti).

Nel tempo molte cose sono cambiate, ma lo sport rimane uno spazio che non è neutro rispetto al genere ed è per questo abitato da stereotipi, pregiudizi e asimmetrie. Essere uomini e donne, bambini o bambine all’interno in questo contesto può fare la differenza da tanti punti di vista: in termini di opportunità di accesso, di possibilità di carriera, di rappresentazione.

Nello spazio mediatico, chi si occupa di sport ha iniziato a raccontare a un pubblico maschile lo sport maschile, che rimane quello con maggiore copertura: secondo un rapporto dell’Unesco, nel 2018 allo sport femminile era dedicato solo il 4% della copertura televisive e la percentuale di notizie non superava il 12%. Questa minore visibilità ha diverse conseguenze, fra cui una carenza di modelli sportivi in cui le più giovani possano riconoscersi, minori investimenti da parte del settore privato con ripercussioni considerevoli sulle strutture, gli stipendi, la possibilità di crescita dell’intero movimento.

Certamente, oggi, rispetto ai tempi in cui Simeoni saltava più in alto di tutte, le atlete godono di maggiore visibilità e riconoscimento, ma il racconto mediatico su di loro resta caratterizzato da forti stereotipi. Per esempio, si tende a enfatizzarne le caratteristiche fisiche o alcune peculiarità caratteriali come sensibilità e dolcezza; oppure a prestare una particolare attenzione alla loro situazione sentimentale e familiare. Si costruiscono modelli che rafforzano ruoli di genere rigidi, mentre i risultati sportivi rimangono sullo sfondo.

Spesso quando l’atleta è donna si costruiscono modelli che rafforzano ruoli di genere rigidi, mentre i risultati sportivi rimangono sullo sfondo

Queste rappresentazioni, certe costruzioni di genere, concorrono a definire uno sport di serie A (quello maschile) e uno di serie B (quello femminile), e questo contribuisce ai numeri relativi all’accesso alla pratica sportiva: secondo l’ultimo rapporto Coni (2022), le atlete rappresentano il 28,2% su un totale di 4,2 milioni di tesserate/i e si concentrano maggiormente in tre discipline: pallavolo, ginnastica ed equitazione.

Un altro elemento che determina una differenza sostanziale fra categorie maschili e femminili è il professionismo sportivo. In Italia è la legge 91/1981 che regola il rapporto di lavoro sportivo e, a partire dalle disposizioni sancite dalla legge e da due direttive Coni, sono solamente quattro le federazioni che ad oggi hanno scelto di qualificarsi come sport professionistici: calcio (Figc), pallacanestro (Fip), limitatamente alla serie A1, golf (Fig), ciclismo (Fic); mentre motociclismo e pugilato hanno rinunciato alla lega Pro rispettivamente nel 2011 e nel 2013. Nessuna di queste discipline ha qualificato come Pro la categoria femminile, fatta eccezione per la Figc, che ha reso professioniste le calciatrici solo in questi giorni, a partire dal 1° luglio scorso, e limitatamente alla serie A. Questa è l’unica federazione professionistica femminile in Italia su più di 60 federazioni facenti parte del Comitato olimpico internazionale (Cio). Ciò significa che tutte le altre atlete non hanno accesso a quei diritti propri di un contratto di lavoro (come la tutela sanitaria, assicurativa e previdenziale); il tema della maternità risulta molto complesso in termini di tutele; infine le atlete possono essere soggette a un tetto agli introiti annuali, come è accaduto alle calciatrici.

Nel 2021 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo n. 36/2021 “Riordino e riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi, professionistici e dilettantistici e del lavoro sportivo”, in attuazione dell’articolo 5 della Legge Delega 8 agosto 2019 n. 86, volta a riformare l’ordinamento sportivo. Le disposizioni possono essere considerate un primo passo (come la figura del lavoratore e della lavoratrice sportivo/a), ma non sono risolutive: rimane alle Federazioni, ad esempio, il compito di qualificarsi come professionistiche.

In questa corsa, iniziata nel 1978, si è fatta molta strada. Lo ha fatto anche il mondo dello sport, cambiando, crescendo, modificando assunti, metodi, tecniche, significati, spazi, politiche. Eppure, in mezzo a tutti questi cambiamenti dentro e fuori dai corpi che lo sport lo praticano, lo definiscono e lo attraversano, rimangono delle questioni centrali, irrisolte, che emergono se lo sport impariamo a guardarlo attraverso le lenti del genere. Le rappresentazioni, le questioni di accesso, il professionismo sono solo alcuni degli ambiti in cui la parità fra sportivi e sportive non è garantita.

Quando Sara Simeoni ha staccato per tentare quella misura che sarebbe stata da record non aveva consapevolezza di quello che la sua impresa avrebbe significato per coloro che sarebbero venute dopo. La genealogia che da lì è partita ci consegna la responsabilità di pensare a un salto collettivo, di spostare l’asticella più in alto, in un processo di presa di coscienza delle asimmetrie di genere presenti oggi nello sport. È tempo che il suo salto diventi anche il nostro, di chi lo sport lo governa, di chi lo abita e di chi lo racconta. Essere consapevoli per cambiare e costruire uno spazio sportivo differente, realmente inclusivo, finalmente paritario.