È il 29 settembre 1975 quando Angelo Izzo e Gianni Guido, giovani della Roma bene residenti ai Parioli, invitano Rosaria Lopez e Donatella Colasanti a una festa. Rosaria e Donatella, che hanno conosciuto quei due giovani educati e ben vestiti il giorno prima, accettano l’invito e partono in auto con loro, alle quattro del pomeriggio. Hanno 19 e 17 anni, sono due ragazze di borgata, del quartiere popolare romano della Montagnola, e a quella festa non arriveranno mai. Vengono portate con una scusa in una villa che si trova a San Felice Circeo, di proprietà di Andrea Ghira, che lì si unisce al gruppo. Una volta in casa, la situazione per le due ragazze cambia radicalmente: compare un’arma e al loro rifiuto di avere un rapporto sessuale iniziano le minacce, le botte, gli stupri che si protraggono sino alla sera del giorno successivo. Rosaria Lopez viene violentata, picchiata a più riprese e infine uccisa. Lo stesso trattamento tocca a Donatella Colasanti, che riesce a salvarsi fingendosi morta.

Nel corso di tutta la sua vita, Donatella non smetterà mai di combattere per ottenere verità e giustizia: ciò che quei ragazzi benestanti e di buona famiglia, arroganti e beffardi, aderenti a gruppi neofascisti, avevano in mente sin dall’inizio era un piano di annientamento: un massacro.

Nonostante il compiacimento morboso dei giornalisti, il saccheggio della vita privata delle vittime e la mancanza di qualsiasi riferimento all’estensione del fenomeno, ciò che accade segna un punto di non ritorno

Il massacro del Circeo agisce come un detonatore nell’Italia degli anni Settanta, attraversata dal femminismo della seconda ondata: la violenza sessuale irrompe nello spazio pubblico con una forza inedita, grazie alla mobilitazione di migliaia di donne. Nell’ottobre dello stesso anno viene indetta a Roma la prima manifestazione nazionale contro la violenza sessuale, a cui faranno seguito molte altre. L’attenzione dei mass media rimane a lungo costante sui fatti del Circeo. Il dibattito tende a focalizzarsi sulla diversa provenienza di autori e vittime, sulla matrice neofascista dei crimini commessi, piuttosto che sulla misoginia degli autori, ma forse per la prima volta su uno stupro e un femminicidio si interroga un intero Paese. E nonostante il compiacimento morboso dei giornalisti, il saccheggio della vita privata delle vittime e la mancanza di qualsiasi riferimento all’estensione del fenomeno, ciò che accade segna un punto di non ritorno.

Il 30 giugno 1976 si apre il processo davanti alla Corte d’Assise di Latina, che vede come imputati Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, quest'ultimo latitante. L’avvocata di Donatella Colasanti è Tina Lagostena Bassi, una figura di spicco del femminismo italiano di quegli anni. Gli avvocati della difesa cercano di ottenere la non imputabilità per Angelo Izzo e di infangare la memoria di Rosaria e la reputazione di Donatella suggerendo che i genitori avrebbero dovuto tenere a freno quelle due ragazze, impedendo loro di uscire. Certamente, così, nulla di spiacevole sarebbe accaduto.

Il processo si chiude il 29 luglio dello stesso anno con una sentenza di ergastolo per tutti, fra gli applausi dell’aula stracolma di donne. “Non un giorno è mancata la presenza delle femministe, immobili e silenziose, compatte dietro agli avvocati […]. Sentono di essere anche loro vittime in quanto donne: questo è un processo sulla condizione femminile in una società tutta per l’uomo” (M.A. Teodori, Le violentate, SugarCo Edizioni, 1977, p. 30).

Al processo per il massacro del Circeo ne seguiranno altri. Altre donne denunceranno sostenute da avvocate femministe, dalla mobilitazione nelle piazze e dalla partecipazione diretta di gruppi femministi ai processi (come quello a Gigliola Pierobon, raccontato qui da Rossella Ghigi). Si sviluppano così una strategia e una pratica del movimento diretta a trasformare le udienze in denunce pubbliche, le aule dei tribunali in casse di risonanza di un messaggio centrale per il movimento: la violenza sessuale è una questione strutturale di dominio e prevaricazione maschile che riguarda tutti e tutte. Prende avvio un percorso straordinario di trasformazione politica, sociale, culturale e istituzionale che svela pubblicamente la violenza di comportamenti maschili comunemente accettati e dati per scontati in nome della virilità, dell’onore, della “vis grata puellae” – espressione così spesso usata dagli avvocati del tempo per negare la violenza e screditare le vittime. È così messa in evidenza la presenza di un’adesione, a volte strisciante a volte esplicita, delle pubbliche istituzioni – forze dell’ordine e magistratura in primis – alla logica prevaricatrice, maschilista e patriarcale degli imputati, denunciata in un docufilm di Loredana Rotondo e altre, trasmesso da Raidue il 26 aprile 1979, che troverà una diffusione internazionale: Processo per stupro (Silvia Salvatici ne ha parlato sempre in questa rubrica).

La rinnovata attenzione alla questione della violenza maschile contro le donne, la drammatica colpevolizzazione delle vittime e le disperate richieste di aiuto che giungono nei luoghi delle donne portano nel 1976 all’apertura dei primi Centri antiviolenza, ad opera del movimento di Liberazione della donna (Mld), a Roma, Milano, Torino e successivamente ad Ancona, Bologna e Perugia. Nelle parole di Liliana Ingargiola, una delle fondatrici dell’Mld, il primo centro antiviolenza aperto a Roma, nella sede occupata del Governo Vecchio, aveva “il significato di un luogo pubblico che tenesse insieme, pur se in momenti specifici diversi, due aspetti così ricorrenti nella realtà di oppressione delle donne: aborto e violenza sessuale”. In questi luoghi, che offrono assistenza legale e psicologica di professioniste legate al femminismo, arrivano molte più donne di quanto le promotrici stesse si aspettassero, donne che portano a una maggiore consapevolezza di “come la violenza più diffusa fosse quella quotidiana, attraversasse tutti gli strati sociali e i colori politici, trovasse la copertura di medici reticenti a fare prognosi corrispondenti ai danni subiti, si scontrasse con una polizia restia ad accettare le denunce […] come il codice penale non prevedesse le donne in quanto persone”(L. Ingargiola e M. Cucchi, Dialogo sul movimento di Liberazione della Donna , “Memoria”, nn. 19-20, 1987, pp. 61 s.). Come mai era accaduto prima, emerge il problema delle violenze che accadono nel contesto familiare, da parte di mariti e compagni, padri, zii e fratelli.

Nonostante il loro successo, l’esperienza innovativa dei primi centri antiviolenza si interrompe e lascia il campo a un cambiamento di strategia e obiettivi del movimento femminista

Nonostante il successo, l’esperienza innovativa di questi primi centri antiviolenza si interrompe e lascia il campo a un cambiamento di strategia e obiettivi del movimento femminista (o meglio, parte di esso). Nel mese di settembre del 1979, viene presentata una proposta di legge di iniziativa popolare dal titolo “Norme penali relative ai crimini perpetrati attraverso violenza sessuale e fisica contro la persona”. La proposta, elaborata dall’Mld, dall’Udi e da diversi collettivi romani, suscita un dibattito ampio e acceso sia all’interno sia all’esterno del movimento. Nelle intenzioni delle promotrici rappresenta uno strumento per avvicinare e parlare di violenza con tante donne, “anche quelle che hanno subito e subiscono violenza e non hanno pensato di fare una battaglia politica insieme ad altre su questo”; per scoprire che i problemi sono collegati e portano “alle stesse contraddizioni di una società organizzata e strutturata su valori maschili” (S. Giorni, Più che una legge, “Noi Donne”, n. 39, ottobre 1979, pp. 9 s.).

L’esperienza dei centri antiviolenza verrà ripresa alla fine degli anni Ottanta da altri gruppi di donne, anch’essi radicati nel movimento politico delle donne, aderenti oggi nell’Associazione nazionale DiRe – Donne in Rete contro la violenza, che ne conta più di 80. È grazie a queste “molte” che ci hanno preceduto, al loro coraggio, alla loro forza e determinazione nell’affrontare il dolore straziante della rottura violenta di un rapporto di fiducia se noi tutte oggi possiamo contare su luoghi che agiscono mettendo al centro la relazione (politica) fra donne, la libertà e il diritto di ciascuna all’autodeterminazione; se viviamo in un Paese con un assetto normativo che dal 1996 identifica la violenza sessuale come un crimine contro la persona e non più contro la morale, che dal 2001 prevede misure cautelari come gli ordini di protezione e di allontanamento dalla casa familiare e molto altro.

Un passaggio fondamentale in quegli anni è avvenuto: il patriarcato è rotto. Ciascuna di noi oggi ha la possibilità di scegliere come affrontare la violenza che le può capitare in sorte e, per dirla con le parole di Luisa Muraro, di dare ai fatti la misura giusta e di non dare a nessuno il pretesto di credersi Dio (La folla nel cuore, Pratiche Editrice, 2000, p. 32).