Un padre, un figlio. Un appalto, un subappalto. Il padre è il caposquadra dell’azienda che ha vinto l’appalto. Il figlio è il piccolo imprenditore che ha avuto il subappalto grazie all’intervento del padre. Nonostante sia imprenditore, al figlio resterà sempre qualcosa dell’essere dipendente, e ancor di più, qualcosa dell’essere figlio.

Il figlio chiede aiuto non soltanto al padre; chiama anche il cugino, lavoreranno nel cantiere all’interno del teatro. I due cugini, assieme a conoscenti reclutati con il passaparola, devono sistemare alcuni elementi dell’impianto elettrico. Benché sia un subappalto marginale, il lavoro si rivela troppo impegnativo per le capacità organizzative del giovane imprenditore, indebitato a causa delle esigenze aziendali e, soprattutto, per il desiderio di una vita al di sopra delle proprie possibilità: le rate per la berlina tedesca, la vita notturna, il sogno di un’esistenza diversa suggellato dal recarsi nel cantiere impolverato calzando mocassini eleganti.

Essere colui che ho definito “il cugino padrone” comporta la ricerca di identità, e questo ha un costo. Il primo, più evidente, è una locuzione: tempi di consegna. Al plurale, tempi, non tempo; dovrebbe essere, nella testa del cugino padrone, un tempo multiplo, variabile, elastico, frazionato, dilatato. Appunto, tempi. Ma questi tempi che all’inizio del subappalto sembrano lontanissimi, si restringono attorno alla data segnata sul calendario, l’ultimo giorno del febbraio 1996.

E questa data diventa un’ossessione. Infatti, all’inizio di marzo è previsto il concerto di Woody Allen in versione clarinettista. Nel caso dovesse consegnare in ritardo il lavoro previsto dal subappalto, il cugino padrone dovrà pagare una penale di 250.000 lire per ogni giorno di ritardo. Sappiamo come è andata. L’incendio appiccato alla fine di una giornata di lavoro, attorno alle 20.40 del 29 gennaio 1996, utilizzando il solvente di un’altra azienda e il cannello a gas.

Il cugino padrone è l’esecutore materiale; suo cugino, il “cugino dipendente”, il complice. E poi fuggono, irresponsabili, quasi fosse una marachella infantile, fuggono sfruttando una delle molte falle nella gestione del teatro, e vanno a casa di un amico, a bere una birra e a fumare hashish.

I primi focolai sono localizzati alle 21, ma, nonostante l’arrivo dei pompieri, il teatro venti minuti dopo raggiunge il cosiddetto flashover. Nel gergo tecnico dei pompieri anglosassoni, divenuto poi di uso comune in tutto il mondo, il flashover è la terza fase di un incendio – le prime sono ignizione e propagazione; dopo, c’è il decadimento finale.

Il flashover è lo sviluppo completo e irreversibile dell’incendio, quando tutti i singoli elementi bruciano in contemporanea e il fuoco è ovunque, e ogni cosa non appare come pochi minuti prima – una trave o un tendone in fiamme – ma si rivela in quanto fuoco. “C’è qualcosa di malinconico in ogni flashover, su cui incombe la distruzione: la distruzione portata da se stesso, la distruzione di se stesso” (come racconto qui).

Il flashover è un momento labile di stabilità nel picco massimo di distruzione. Bruciare tutto per distruggere e dimenticare le proprie responsabilità e ricominciare la solita vita, comprando una barca a rate per attraversare Venezia.Ogni piromane dovrebbe sapere che un incendio conserva la traccia della propria origine, “una sorta di informazione genetica grazie alla quale tutto è iniziato”

Eppure qualcosa rimane. Ogni piromane dovrebbe sapere che un incendio conserva la traccia della propria origine, “una sorta di informazione genetica grazie alla quale tutto è iniziato”. Ecco il lavoro dei periti. Non è straordinario che da un mucchio informe di detriti e macerie si possa risalire all’orario di accensione? Ricomporre le azioni attraverso i resti, così i resti ritornano fatti.

E tuttavia, il cugino padrone è colpevole ancora prima di essere arrestato. Se ricordiamo il duplice significato del tedesco Schuld Schulden – debito e colpa – l’incendiario è già colpevole prima del rogo, colpevole in quanto indebitato. Certo, tutti noi, più o meno, siamo indebitati: per una casa o un’auto. Ma non pensiamo di eliminare i nostri debiti bruciando la casa o l’auto.

Straordinaria, stavolta in senso negativo, è la discrepanza tra la penale e i danni causati: 120 miliardi di lire di danni, anche se la cifra esatta non si saprà mai. Proprio questa sproporzione rivela qualcosa di molto più grande dell’incendio doloso. L’insistenza del capitalismo contemporaneo nell’andare avanti, anche a costo della distruzione del pianeta, e quindi, di se stesso. Un pianeta abitato da una massa disgregata divenuta folla anonima, individui alla ricerca di identità, in un mondo che lancia continui segnali di autocombustione, di incendio irreversibile, il flashover, appunto, di cui il piromane è al tempo stesso autore e lapillo eruttato, espulso e riassorbito per mineralizzare il suolo, oppure “detrito della realtà, avanzo da smaltire”.

L’insistenza nel creare desideri, uno stato di eccitazione, “un continuo principio di incendio” alimentato dall’accelerante necessario all’innesco. Basti pensare alla proposta ininterrotta che ci circonda: l’ultimo film imperdibile, la serie televisiva straordinaria, la partita sempre decisiva per le sorti del calcio, e dell’umanità: trasformare tutto in un evento, non in un fatto, banalizzando così l’evento stesso, poiché soltanto pochissimi eventi generano davvero il trauma. Del resto, dal punto di vista dei piromani, l’incendio alla Fenice non è un evento e forse nemmeno un fatto: è una qualsiasi giornata lavorativa, tant’è che dopo l’innesco vanno a bere una birra e a fumare hashish. Non c’è consapevolezza nel bruciare un teatro leggendario, un pezzo importante di Venezia: è come se bruciassero un capannone dell’entroterra e in fondo è logico che sia così, perché dal loro punto di vista la Fenice era un cantiere.zNon c’è consapevolezza nel bruciare un teatro leggendario, un pezzo importante di Venezia: è come se bruciassero un capannone dell’entroterra; e del resto dal loro punto di vista la Fenice era un cantiere

Questo incendio ci ricorda l’insistenza del capitalismo contemporaneo nel distruggere, nell’adattarsi, nel fagocitare ogni elemento, sia esso naturale o artificiale. Molti prodotti e servizi offerti – il tempo di lettura di alcuni testi in Rete, la medicina che cura il reflusso, la preparazione di un pasto in un fast food o il balsamo che rende i capelli più forti – si modulano sul limite performativo di tre minuti. Non a caso tre minuti è il tempo necessario affinché una stanza, dopo un innesco adeguato, raggiunga il flashover.

E proprio all’epoca del rogo alla Fenice, la finanza muta nella sua manifestazione più evidente: la cosiddetta lingua delle grida, ossia i gesti che gli agenti della Borsa di Milano effettuavano durante le operazioni di compravendita per ovviare al rumore di fondo. Quei gesti hanno attraversato il Novecento. Avevano un’origine teatrale, popolare. Ma proprio alla metà degli anni Novanta, erano appena iniziate le silenziose contrattazioni telematiche, flussi di denaro che compongono il mondo e, nonostante tutto, lo impoveriscono.

Il denaro non ha più bisogno dei gesti, del raggio d’azione del corpo: è dentro il corpo. Alzarsi al mattino, non pensare al lavoro, ma ai soldi, fuggire da sé stessi e sconfinare, come il cugino padrone, al di là del fido, entrare nella dimensione spirituale del denaro, “l’energia bruciata per mantenere viva questa immagine”.