La vile uccisione di Libero Grassi, il 29 agosto del 1991, è uno degli ultimi atti di macabra spavalderia compiuto da Cosa nostra prima delle bombe, dentro e fuori la Sicilia, del 1992-93. Come per le stragi che queste bombe causarono, anche l’omicidio dell’imprenditore siciliano segna la definitiva rottura di un equilibrio, toccando un punto di non ritorno. Con le stragi dei primi anni Novanta – il massimo azzardo di Cosa nostra – inizia la parabola discendente di quella che all’epoca era un’organizzazione ricca e agguerrita, ferita dalle sentenze del maxiprocesso, ma ancora in una smagliante forma criminale. Allo stesso modo, il sacrificio di Libero Grassi, punito per aver preso pubblicamente posizione contro la pratica del pizzo sulle colonne del “Corriere della Sera” e con la sua partecipazione a un seguitissimo talk show televisivo, getta il seme della ribellione contro il racket delle estorsioni.
La pianta dell’antimafia sociale ha però uno sviluppo vegetativo peculiare: all’indomani di un evento luttuoso, i suoi getti sono immediati e rigogliosi. A questa manifestazione di vitalità si accompagna, sottoterra, la capacità di mettere pazientemente radici che permeano e compattano il tessuto sociale. Fu così che, per usare la terminologia degli studi sui movimenti sociali, alla fase di effervescenza collettiva seguita all’omicidio di Libero Grassi e, ancor più, alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, succedette una fase di latenza. È il consueto andamento carsico dei movimenti sociali che alterna visibilità e protagonismo a lavoro nell’ombra.
La reazione alle stragi dei primi anni Novanta portò alla nascita e al progressivo consolidamento di importanti associazioni che diverranno poli di riferimento e attrazione di molte esperienze antimafia sparse sul territorio, da Sud a Nord: nel 1995 si costituisce Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, con l’intento di dar vita alla “legalità organizzata”; nel 1996 è la volta di Avviso Pubblico, una rete di Comuni, Province e Regioni contro le mafie. Sul fronte più circoscritto dell’antiracket, nello stesso periodo si diffonde, faticosamente, la pratica della resistenza e della denuncia collettiva, che debutta nel 1991 a Capo D’Orlando. Il principio è semplice quanto importante: evitare l’esposizione personale nella lotta al racket e alla mafia, rendendo la ribellione al pizzo un fatto collettivo. Come aveva scritto profeticamente Giovanni Falcone, e come testimonia la vicenda di Libero Grassi, che a più riprese lamentò l’atteggiamento di distacco di Confindustria sul tema del racket (se non di aperta ostilità), “si muore perché si è soli”.
Negli anni seguenti, malgrado la progressiva strutturazione dell’associazionismo antimafia e antiracket, la solitudine degli imprenditori davanti alle richieste estorsive rimase, in Sicilia, una triste realtà. Bisognerà attendere il 2004 affinché, proprio a Palermo, le radici di quell’antimafia sociale piantata molti anni prima dessero i frutti sperati, scrivendo una nuova pagina nella lotta al racket. I primi protagonisti di questa nuova stagione di mobilitazione antiracket sono un gruppetto di trentenni, cioè di ragazze e ragazzi che ai tempi dell’omicidio di Libero Grassi si affacciavano all’età adulta: l’età giusta per appassionarsi a una causa. La storia è stata raccontata tante volte, ma è bene richiamarla brevemente: questi sette ragazzi palermitani si trovano a fantasticare intorno all’apertura di un pub, ma la fantasia passa presto quando considerano l’eventualità, molto concreta, che qualcuno bussi alla loro porta per esigere il pizzo. Nel bel mezzo delle loro pensose considerazioni, irrompe la sentenza di condanna dei responsabili dell’omicidio di Libero Grassi. Una condanna giusta e pesante che però è così commentata dalla vedova: “Dopo tutti questi anni la cosa che più mi sorprende e mi amareggia è che tutti continuano a pagare e tutti fanno finta di niente”. Lo sconforto e l’amarezza che trasudano da queste parole fanno traboccare il vaso dell’indignazione.
L’entusiasmo giovanile fa il resto e, nella notte tra il 28 e il 29 giugno del 2004, i ragazzi che sognano di aprire un pub tappezzano le strade di Palermo di adesivi listati a lutto con sopra scritto “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Due mesi dopo, nella notte tra il 28 e il 29 agosto, in occasione della commemorazione di Libero Grassi, un gruppo più nutrito rispetto al nucleo originario degli “attacchini” appende su alcuni ponti della circonvallazione della città striscioni con su scritto “un intero popolo che si ribella al pizzo è un popolo Libero”. Comincia così, con questi gesti un po’ improvvisati e dal valore altamente simbolico, un’esperienza originale di lotta alle mafie. Originale perché, sull’onda lunga del movimento no global che negli anni precedenti aveva avuto la sua massima visibilità e vitalità, prova per la prima volta ad applicare il principio del consumo critico alla lotta al racket.
L’idea di fondo è racchiusa nello slogan “Pago chi non paga”: fare la spesa in quegli esercizi commerciali che, proprio come aveva fatto Libero Grassi 13 anni prima, dichiarano pubblicamente di non essere disposti a pagare il pizzo. Del comitato “certificatore” della natura pizzo-free dei negozi e delle imprese, oltre ad esponenti delle agenzie di contrasto, fa parte anche la vedova di Libero, Pina Maisano. Memori dei rischi e delle possibili tragiche conseguenze dell’isolamento e della lotta forzatamente solitaria contro la mafia, il Comitato Addiopizzo ha promosso, tra le altre cose, l’accompagnamento alla denuncia degli imprenditori disposti a ribellarsi al pizzo e avviato la pratica di costituirsi sistematicamente parte civile nei processi a carico degli estorsori.
A 16 anni da quell’estate brava, il Comitato Addiopizzo è ancora in piedi e porta avanti il suo progetto di animazione sociale. Come tutte le esperienze di antimafia sociale, in questo lungo periodo il gruppo di attivisti ha attraversato fasi diverse, di grande protagonismo cittadino accompagnato da attività quotidiane rimaste sottotraccia. Tra le esperienze più innovative e rilevanti, l’organizzazione delle fiere del consumo critico in piazza Magione, le gioiose manifestazioni sotto la Questura in occasione di importanti operazioni di polizia, la creazione della prima associazione antiracket a Palermo significativamente chiamata “Libero Futuro”, fino alla ribalta conquistata quando uno dei sette attacchini del nucleo originale si è candidato, suscitando polemiche e discussioni, a sindaco di Palermo nel 2017 col Movimento 5 Stelle.
Ancor più dell’antimafia, nei 16 anni trascorsi dalla nascita di Addiopizzo e dai 29 passati dall’omicidio di Libero Grassi, è però cambiata la mafia palermitana e siciliana. I colpi assestati all’organizzazione criminale all’indomani delle stragi dei primi anni Novanta hanno, se non distrutto, ridotto al lumicino le capacità d’azione dei clan di Cosa nostra. E anche quando i superstiti provano di tanto in tanto a rialzare la testa, come mostra il tentativo di ricostituire la commissione provinciale, finiscono presto nella rete delle agenzie di contrasto. Se cambia la mafia, che oggi in Sicilia non spara e non è quasi più capace di estorcere denaro ai commercianti, cambia necessariamente anche l’antimafia. Se non si dissolvono dopo le fiammate di mobilitazione alimentate da eventi delittuosi, i gruppi antimafia, come del resto capita anche in altri movimenti, col tempo evolvono in direzioni diverse. In questo caso, i sentieri percorsi dal Comitato Addiopizzo sono molteplici: l’animazione sociale e culturale nella città di Palermo; l’attività educativa nelle scuole, che è del resto uno dei pilastri dell’intero movimento antimafia; la commercializzazione delle attività con la nascita di un’agenzia che promuove un turismo della legalità e uno store online di prodotti pizzo free (che vende anche le vestaglie prodotte dalla Sigma, l’azienda di Libero Grassi ora gestita dal figlio Davide). Come si è visto, è anche da questa esperienza di mobilitazione che proviene il candidato che tenta di conquistare il governo della città sotto le insegne del Movimento 5 Stelle.
Per continuare con la metafora della pianta, si può concludere che il seme che muore ha dato alfine i suoi frutti. La memoria si è fatta radice e alimenta ancora un impegno sociale che va oltre l’attivismo strettamente antimafia. In tempi egoisti, voraci e smemorati come quelli attuali, le vicende qui brevemente raccontate sono senz’altro un segno di speranza.
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