«Questa festa ha segnato la fine del Sessantotto», avrebbe scritto Marisa Rusconi; «Così muore il festival pop», diagnosticava il «Corriere della Sera»; «Il proletariato giovanile è già vecchio?», ci si chiese su «Re nudo». Sono solo alcuni dei commenti sul Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, Milano, dal 26 al 29 giugno 1976. Organizzato dalla rivista «Re Nudo» e da Lotta continua, Partito radicale, IV Internazionale e altri, quel grande raduno musicale con 100.000 persone si risolse, a parere pressoché unanime, in un disastro: distese di rifiuti, tensioni e violenze varie, lacrimogeni guizzanti fra gli alberi, pestaggi, aspre contestazioni contro gli organizzatori, squallore e caos. E una pioggia inclemente per buona parte del tempo.
Il Lambro 1976 fu il sesto festival promosso dal mensile dell'«Underground a pugno chiuso» (fondato da Valcarenghi), l'ultimo a Milano; il primo si era svolto nel 1971 nel Lecchese, poi dal 1974 l'evento si era spostato nella capitale lombarda, sempre più frequentato da militanti «rivoluzionari» e «alternativi» vari. Nel frattempo, a metà decennio, il «movimento» stava però visibilmente cambiando. In forte affanno la «nuova sinistra» nata dopo il Sessantotto; le periferie metropolitane gonfie di giovani sempre più marginalizzati e disillusi; le speranze di una decisiva «spallata» all'eterno regime democristiano frustrate dai risultati elettorali del 20 giugno 1976. Ora la base della contestazione era soprattutto figlia del disincanto: della crisi del 1973, della prima massiccia precarizzazione del lavoro, di una rabbia sempre più impaziente e impotente di fronte a un sistema di potere inamovibile (e che per di più riusciva, con il «compromesso storico», nel capolavoro di fagocitare gli ultimi resti di un'irriducibile tradizione «antisistemica» ormai quasi secolare).
La contestazione era figlia del disincanto: della crisi del 1973, della prima massiccia precarizzazione del lavoro, di una rabbia sempre più impotente di fronte a un sistema di potere inamovibile
Nello stesso 1976, oltre che al Lambro, scenari di rabbiosa «conflittualità» diffusa si ricrearono in diverse occasioni: scontri con la polizia e il servizio d'ordine al Festival della Fgci di Ravenna, fra il 24 luglio e il 1° agosto; disordini ed «espropri» all’Umbria Jazz (20-25 luglio), tanto che si decise poi di non ripetere il festival l'anno successivo; in dicembre, infine, la clamorosa contestazione alla Scala. Insomma, quello fu un anno in cui emersero vistose differenze rispetto ai modelli di militanza giovanile appena precedenti, in una cornice certamente eterogenea – non era affatto ovvio che tutto il «proletariato giovanile» condividesse questa vocazione alla violenza – ma nel complesso caratterizzato dal tentativo di reagire attivamente al degrado delle condizioni concrete di vita di molti giovani. Erano le prime scintille di un incendio che sarebbe divampato molto più esteso l'anno successivo, quando il tentativo del «governo delle astensioni» di schiacciare brutalmente il neonato movimento del Settantasette avrebbe sancito il definitivo declassamento a problema di ordine pubblico di un'amplissima e bruciante sofferenza sociale.
Tornando al Festival di quella fine di giugno, è certamente degno di nota che proprio Milano, sin dall'inverno appena trascorso, diventò la capitale di un nuovo soggetto del movimento, i Circoli del proletariato giovanile, frequentati per lo più da giovanissimi di provenienza sociale medio-bassa e nati per spezzare una spirale di isolamento e miseria esistenziale sempre più opprimente, soprattutto nei «ghetti» delle desolate aree suburbane dove si stava diffondendo rapidamente l'eroina. Occupazioni di edifici (e nascita dei primi centri sociali), «autoriduzioni» ed «espropri proletari», celebrazione della festa «liberata» come occasione di espressività individuale, ma anche come forma di azione politica, furono tra le principali iniziative di lotta di queste nuove aggregazioni (52 nella sola Milano all'inizio del 1977), in cui i problemi quotidiani, i bisogni concreti e la ricerca di un tempo libero non alienato né consumistico spesso prevalevano sugli altisonanti princìpi ideologici così cari alla generazione precedente.
Della «nuova sinistra» tra l'altro dicevano: «Quello che sono capaci di fare è organizzare seminari. Seminari su Lenin. Ma studiando Lenin non è che uno impara a vivere in una città come questa». Questi inediti «compagni» apparivano lontani dal passato, anche rispetto all’esperienza fondante del movimento operaio, quella della fabbrica: «Spavento senza fine è lavorare alla catena, aspettando agosto per andare in ferie con la famiglia. Io sono stato alla catena. Vedevo quelli che erano lì da 10, 20, 40 anni: non esistevano più, erano vuoti. Dopo tre mesi, me ne sono andato». Tuttavia, la vicenda dei Circoli non fu certo avulsa dalla militanza; la già citata contestazione alla prima della Scala del 7 dicembre 1976, ad esempio, fu esplicitamente rivolta contro il più appariscente rito della borghesia meneghina.
Un particolare spessore politico veniva inoltre conferito anche a molte attività quotidiane, alla sfera del «personale», alla corporeità e alla comunicazione (come nel primo Sessantotto, e ancor più profondamente nel neofemminismo), sebbene poi da parte non solo della grande stampa, ma anche della sinistra più «nuova», fioccassero puntuali le accuse di qualunquismo, vacuità e «spontaneismo». Forse, in realtà, per questi giovani marginalizzati si trattava piuttosto di dare altri significati alle lotte in quanto tali: «Il bisogno di comunismo non è solo buttare all'aria i padroni, è anche potersi riprendere la propria vita, poter trovare la felicità», scrivevano ad esempio.
In queste aggregazioni, i problemi quotidiani e la ricerca di un tempo libero non alienato prevalevano sugli altisonanti princìpi ideologici cari alla generazione precedente
Molto probabilmente, il medesimo sottoproletario affamato che davanti alla Scala si ribellava a una plumbea afflizione quotidiana, rivendicando il «diritto al caviale», era fra coloro che pochi mesi prima avevano assalito i camion frigoriferi del Lambro per «espropriare» i famosi polli congelati, poi usati (e subito molto «iconizzati» dai media «borghesi») anche come palloni da calcio. Era stato quello in realtà un episodio della più ampia contestazione che montò rapidamente contro gli organizzatori del festival: contro cioè la musica selezionata in base agli interessi delle case discografiche, l'assenza di servizi minimi (bagni, acqua potabile), i prezzi troppo alti degli stand alimentari, i pestaggi di tossicodipendenti da parte del servizio d'ordine. L’«esproprio» a un supermercato esterno si concluse con l'intervento in forze della polizia, e solo una trattativa in extremis impedì che le cariche si prolungassero fino ad abbattersi sulle decine di migliaia di partecipanti.
Certamente però non ci furono solo ragioni di protesta nella tensione in cui naufragò l'ultimo grande festival della «controcultura». I casi di violenza ai danni di donne e omosessuali avevano evidentemente poco a che fare con controversie più o meno fondate di natura organizzativa. Al Lambro, infatti, gravi e continue molestie maschili tormentarono non poche donne, mentre uno stand del movimento omosessuale fu distrutto, alcuni suoi militanti furono buttati giù a forza dal palco, altri furono brutalmente aggrediti senza ragione. Una vera e propria fiera del virilismo più ottuso, immediatamente ed energicamente denunciata dalle femministe presenti (come racconta anche il film di Luca Rastelli, Nudi verso la follia).
Nel suo complesso, la rabbia giovanile esplosa al festival pop del 1976 si attirò ovviamente critiche, condanne, scomuniche da destra e da sinistra; del resto, alcune sue «maschie» manifestazioni apparivano a chiunque, di fatto, difficilmente difendibili sul piano politico, specialmente in un periodo di grande forza del movimento delle donne. Diversamente da quanto pensavano non pochi «compagni», dopo tutto, non era affatto detto che un proletario avesse sempre ragione. Specie se maschio, si potrebbe aggiungere.
In una rivista femminista pubblicata proprio negli stessi giorni del Parco Lambro, si scriveva: «Volete riappropriarvi della vita? Intanto, distruggete i padroni che sono in voi, distruggete le caratteristiche capitalistiche che sono in voi. Distruggetevi come nostri padroni. Distruggetevi come aspiratori inesauribili del nostro lavoro domestico. Non c'è altra via d'uscita». Difficile credere, purtroppo, che molti uomini – rivoluzionari o meno – fossero disposti a imboccare una simile strada. Ma questa non è solo storia di quasi mezzo secolo fa, a ben vedere.
Riproduzione riservata