Inaugurate il 25 agosto 1960 dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, quelle di Roma 1960 restano ad oggi le uniche Olimpiadi estive mai organizzate in Italia. Ricordate negli ultimi anni con crescente nostalgia, rappresentano per molti versi una vetrina del miracolo economico del Paese.
Assegnati nel giugno del 1955, i Giochi di Roma ribadiscono, quattro anni dopo quelli invernali di Cortina 1956 (attribuiti nel 1949), la definitiva e piena rilegittimazione dell’Italia nell’arena internazionale. Sono soprattutto un trionfo per la giovane Repubblica che riesce laddove sia l’Italia liberale sia quella fascista avevano fallito. Nel 1906, infatti, il mancato supporto governativo, sommato alle dispute interne alle istituzioni sportive italiane, avevano portato Roma a rinunciare ai Giochi del 1908, mentre Mussolini aveva preferito ritirare la candidatura a quelli del 1940 per non compromettere le relazioni con il Giappone.
L’apertura dei Giochi sancisce anche la fine della cosiddetta «lunga estate calda», cominciata il 4 aprile di quello stesso anno con la formazione del governo Tambroni, un monocolore democristiano retto dal determinante appoggio esterno del Movimento sociale italiano, che aveva provocato una massiccia mobilitazione popolare volta a difendere i valori democratici e antifascisti. La protesta era culminata a inizio luglio con l’imponente manifestazione contro il congresso missino a Genova e la drammatica repressione di uno sciopero operaio a Reggio Emilia in cui vennero uccisi cinque manifestanti. Proprio la necessità di far arrivare il Paese in un clima sociale più disteso all’appuntamento olimpico è fra le molteplici ragioni che convincono la Dc ad abbandonare la via del centro-destra, affidando a Fanfani un governo che si reggeva grazie all’appoggio esterno di Psdi, Pli, Pri e soprattutto all’astensione del Psi.
Le tensioni internazionali, da Berlino a Cuba passando per l’abbattimento dell’aereo spia statunitense U2, non mancano, ma entrano in modo tutto sommato marginale nell’arena olimpica, al contrario di quanto era avvenuto quattro anni prima ai Giochi di Melbourne, quando sia l’invasione sovietica dell’Ungheria sia la crisi di Suez avevano provocato persino dei boicottaggi. La Guerra fredda segna comunque profondamente la prima edizione olimpica italiana e non solo per le azioni di spionaggio e controspionaggio descritte da Maraniss nel volume Roma 1960. Le Olimpiadi che cambiarono il mondo (Rizzoli, 2010).
Mentre la Germania dell’Est e quella dell’Ovest gareggiano con una squadra unificata simboleggiata dalla bandiera tedesca con i cinque cerchi e dalla nona sinfonia di Beethoven come inno, lo stesso non accade con le due Cina e le due Coree. Pechino e Pyongyang non accettano questo compromesso filo-occidentale imposto dal Cio, ma così facendo a Roma partecipano solo la Corea del Sud e Taiwan. Al Comitato olimpico di Taipei però è imposto di non chiamarsi Cina e durante la marcia degli atleti il capodelegazione impugna un cartello con la scritta «Under protest». Peraltro le Olimpiadi di Roma accolgono anche altri due altri esperimenti geopolitici che si riveleranno essere di breve durata: la Repubblica araba unita (che combinava Siria ed Egitto) e la Federazione delle Indie occidentali composta da dieci Paesi caraibici.
Ad orientare politicamente l’organizzazione dell’evento sono due uomini con lo stesso nome: il presidente del Coni, Giulio Onesti, e quello del Comitato organizzatore, giovane ma già influente politico democristiano, Giulio Andreotti. Forti di una profonda amicizia, i due promuovono pubblicamente la retorica de «Lo sport agli sportivi» e dell’autonomia dello sport dalla politica. Ma proprio le Olimpiadi di Roma, sulla scia di quanto era già avvenuto per Cortina, Onesti e Andreotti portano alla creazione di un Comitato interministeriale per la gestione dell’evento e a una maggiore formalizzazione dei rapporti istituzionali fra il Coni e il governo.
L’exploit che più di ogni altro colpisce l’immaginario degli italiani è quello di Livio Berruti, velocista torinese che trionfa nei 200 metri piani, interrompendo il dominio statunitense che durava dal 1932
Sul piano sportivo, a quelle Olimpiadi l’Italia conquista 36 medaglie complessive, 13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo, dietro solo all’Unione Sovietica (103 medaglie e 43 ori) e agli Stati Uniti (71 e 34), superpotenze anche sportive. A brillare sono soprattutto gli azzurri del ciclismo (7 medaglie), del pugilato (7) e della scherma (6). Campioni olimpici come gli schermidori Giuseppe Delfino ed Edoardo Mangiarotti, i ciclisti Sante Gaiardoni e Livio Trapè, i pugili Francesco De Piccoli e Nino Benvenuti o i cavalieri Raimondo e Piero d’Inzeo conquistano notorietà e le prime pagine dei giornali. Ma l’exploit che più di ogni altro colpisce l’immaginario degli italiani è quello di Livio Berruti. Il velocista torinese, eguagliando per ben due volte il record del mondo, trionfa nei 200 metri piani, interrompendo il dominio statunitense che durava dal 1932. Da Giuseppina Leoni nei 100 metri piani e dal fioretto a squadre arrivano invece le uniche due medaglie (di bronzo) femminili di una squadra azzurra composta da sole 34 atlete e da ben 246 atleti.
Sebbene sul piano numerico l’ingresso sostanziale delle nazioni e degli atleti africani avverrà molto più a Tokyo nel 1964 che a Roma, quelli capitolini diventano i Giochi della decolonizzazione grazie a un’immagine potentissima. È quella dell’etiope Abebe Bikila che vince la maratona correndo scalzo e sferrando l’attacco decisivo all’altezza dell’obelisco di Axum, trafugato dagli italiani nel 1937.
L’atmosfera di festa è però macchiata da un episodio drammatico: la morte di Knud Enemark Jensen. Durante la 100 chilometri a squadre, il ciclista danese sfinito dal caldo e sotto l’effetto di sostanze stimolanti cade due volte a terra prima di spirare una volta tardivamente trasportato in ospedale. Anche se il decesso è inizialmente attribuito a un’insolazione e poi derubricato a trauma cranico, questa tragedia negli anni successivi contribuì alla realizzazione, in alcuni Paesi europei, delle prime legislazioni antidoping.
Dopo l’esperienza dei Giochi invernali nel 1956, la Rai è nuovamente la prima azienda a trasmettere in diretta e all’estero le immagini delle gare grazie all’Eurovisione. Proprio l’avvento della contrattazione sui diritti televisivi segnerà una svolta nella storia delle Olimpiadi, orientando i Giochi lungo la via della commercializzazione e del professionismo che si paleserà senza più remore nel corso degli anni Ottanta e Novanta.
Come ha scritto Nicola Porro
«Le Olimpiadi del 1960 – che pure lasciano uno strascico di recriminazioni relative a vicende di speculazioni urbanistiche e a qualche eccesso nella gestione dei finanziamenti – contribuiscono potentemente a quel “sentimento di successo” che sembra pervadere l’Italia faticosamente pervenuta alle soglie del benessere (…) La positiva immagine dell’Italia trasmessa dai Giochi e le belle prove degli atleti azzurri (…) sono perciò rielaborate come una sorta di rito di conferma delle virtù di un Paese ormai capace di realizzare il proprio miracolo economico» (N. Porro, Identità, nazione, cittadinanza, Sport, società e sistema politico nell'Italia contemporanea, Seam, 1995 p. 107).
L’eredità dei Giochi del 1960 sembra essere oggi legata alla nostalgia di una Roma, quella de La dolce vita, che non c’è più e a un’idea di Olimpiade ancora immune da gigantismi
Sul piano spirituale, l’eredità dei Giochi del 1960 sembra essere oggi legata alla nostalgia di una Roma, quella de La dolce vita, che non c’è più e a un’idea di Olimpiade ancora immune da gigantismi. Dal lato materiale, invece, le infrastrutture costruite per l’occasione continuano ad essere il fulcro dello sport capitolino. Certo il palazzetto di Nervi vige in stato di abbandono e il velodromo è stato demolito, ma il Foro italico resta il cuore pulsante dello sport italiano e lo stadio olimpico, oltre ad essere la casa delle squadre di calcio della Roma e della Lazio ospita le finali di Coppa Italia, il Golden gala di atletica e il Sei nazioni di rugby. Il complesso natatorio, addirittura, ha letteralmente salvato i Mondiali di nuoto del 2009 dopo che era diventato chiaro che l’International Aquatic Centre, progettato a Tor Vergata dall’archistar Santiago Calatrava, non avrebbero mai visto la luce.
La longevità degli impianti di Roma 1960 confrontata con la prematura dismissione di quelli di Torino 2006 o di alcuni stadi costruiti per Italia 90 ci suggerisce un ripensamento. Mentre oggi in Italia le candidature ai grandi eventi sportivi sembrano essere strumentali per poter provare, senza nemmeno la garanzia di riuscirci, a realizzare o ad ammodernare le infrastrutture sportive, perché non ispirarsi a un’epoca in cui lo stadio, inaugurato nel 1953, era stato costruito proprio con l’obiettivo di ottenere i Giochi olimpici e questa si rivelò la carta vincente?
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