Non è semplice riassumere in poche battute il significato della prima Marcia della pace che da Perugia si inerpicò fino alla rocca di Assisi la mattina del 24 settembre 1961: sicuramente per la storia del pacifismo italiano si trattò di un punto di svolta, di una data fortemente periodizzante in grado di segnare un prima e un dopo. Ma una qualche rilevanza, magari più simbolica che fattuale, la si può rintracciare anche nella storia stessa dell’Italia repubblicana: una marcia laica, la cui genesi andava ricercata sorprendentemente al di fuori dei partiti politici, al di sopra della logica manichea della Guerra fredda, della contrapposizione dei mondi e dell’appartenenza ideologica a una delle «due chiese». Una iniziativa che, in qualche modo, testimoniava l’avvio di un processo di maturazione a livello civile da parte di una Repubblica adolescente, di un Paese che da poco più di quindici anni si era liberato del suo passato fascista e della sua pedagogia bellicista e violenta e aveva imboccato, pur tra mille contraddizioni, la strada della democrazia.
Provo a sintetizzare tutto questo ricorrendo alle immagini, alle poche fotografie scattate in quel giorno dai fotografi delle testate giornalistiche presenti o da qualche partecipante. Chi osserva le scene cristallizzate da quegli scatti non può non rimanere colpito da una doppia contrapposizione. Il primo contrasto è quello tra i volti sorridenti e gli atteggiamenti spensierati delle migliaia di persone che percorrevano il tragitto che separa le due città e le scritte che si potevano leggere sugli striscioni che campeggiavano sopra le loro teste: scritte che rimandavano a un presente fosco, angosciante, fatto di guerre, di omicidi politici, di armi atomiche, contro cui i marciatori alzavano timidamente la loro voce; il presente di un mondo che sembrava nuovamente avviarsi su una pericolosa china di violenza e distruzione.
In effetti, la collocazione cronologica della Marcia era anch’essa significativa: soltanto un mese prima la Guerra fredda aveva partorito uno dei suoi simboli più rappresentativi e angosciosi al tempo stesso, il Muro di Berlino, la cui costruzione coincideva con uno dei momenti di massima tensione negli equilibri internazionali, che era iniziato in primavera con lo sbarco della Baia dei Porci e che sarebbe culminato un anno dopo la marcia, con la crisi dei missili a Cuba. Qualche mese prima della Marcia si era aperto a Gerusalemme il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, che stava disvelando al mondo l’orrore dei campi di sterminio nazisti e della Shoah, di cui erano ancora scarsamente conosciute le dimensioni e le modalità di attuazione. Intanto focolai di guerra stavano divampando in gran parte dei Paesi africani e asiatici ormai avviati sulla via senza ritorno della decolonizzazione, dall’Indocina all’Algeria, fino al Congo, dove era in corso un conflitto devastante che avrebbe coinvolto direttamente anche l’Italia: soltanto un mese e mezzo dopo la Marcia sarebbero stati massacrati tredici militari della nostra aviazione militare a Kindu, mentre prendevano parte alla prima missione di pace delle Nazioni Unite.
Anche per la società italiana si trattava di un delicato momento di passaggio: dopo le rivolte più o meno spontanee contro i rigurgiti fascisti del governo Tambroni, che avevano infiammato le piazze di alcune città quindici mesi prima, il terzo governo Fanfani stava traghettando il Paese verso l’esperienza politica del centrosinistra, generando un clima di attesa finanche eccessivo.
La marcia della pace fu una manifestazione costruita con un linguaggio del tutto nuovo, il tentativo di entrare dentro il terreno della politica con una forma partecipativa non ancora sperimentata nel nostro Paese
Ma soprattutto, la marcia si collocava proprio al centro di un altro fenomeno epocale e globale: il miracolo economico (1958-1963): in questo momento l’Italia stava vivendo, oltre a un poderoso slancio produttivo, anche un radicale processo di modernizzazione, in grado di stravolgere non soltanto gli assetti produttivi, ma anche le culture diffuse, le forme partecipative, i linguaggi. Ed ecco il punto: la Marcia della pace fu esattamente questo, una manifestazione costruita con un linguaggio del tutto nuovo, un tentativo di entrare dentro il terreno della politica (intesa nel senso più lato e più alto del termine) con una forma partecipativa non ancora sperimentata nel nostro Paese.
La sensibilità pacifista sembrava non riuscisse a oltrepassare lo stretto recinto dei fedelissimi e degli accoliti, sempre pronti a partecipare a ogni manifestazione, ma sempre gli stessi. L’intento della Marcia era invece quello di coinvolgere le classi popolari
Aldo Capitini, ideatore, organizzatore e anima della Marcia, ormai da anni, insieme alla sua stretta cerchia di collaboratori, dedicava grande dispendio di tempo e di energie per organizzare incontri, convegni, seminari, conferenze sui vari temi connessi alle diverse anime del pacifismo del tempo; ma senza risultati apprezzabili. La sensibilità pacifista sembrava non riuscisse a oltrepassare quello stretto recinto di fedelissimi e di accoliti, sempre pronti a partecipare a ogni manifestazione, ma sempre gli stessi. L’intento della Marcia era proprio questo: riuscire a coinvolgere le classi popolari. «È fatta per loro, questa marcia, perché i contadini sanno camminare, mentre sono a disagio nelle conferenze», diceva il filosofo perugino ai giornalisti che lo intervistavano la mattina di quel 24 settembre. In effetti una partecipazione popolare vi fu: per la prima volta i partecipanti a una manifestazione per la pace, organizzata al di fuori dei partiti politici, si contavano non più a decine, ma a migliaia. La marcia produsse uno sconvolgimento profondo nel «piccolo mondo antico» del pacifismo italiano, spezzò il recinto, permise a molti nuovi soggetti di entrarvi e modificarlo dall’interno.
Naturalmente a comporre quella folla eterogenea in marcia per la pace non c’erano soltanto operai e contadini, ma anche insegnanti, intellettuali, artisti e soprattutto tantissimi giovani, ragazze e ragazzi. Ed ecco il secondo contrasto che emerge chiaramente dalle fotografie: quello dei segni esteriori. La figura compassata di Capitini, all’epoca poco più che sessantenne ma già segnato dagli anni (una parte del tragitto aveva dovuto percorrerla in auto per alcuni malanni fisici che lo tormentavano da tempo), con giacca grigia, cravatta scura e cappello a tesa calato sulla testa, spicca in mezzo alle t-shirt e alle camicie aperte dei giovani che lo circondavano, alle gonne colorate delle ragazze, agli atteggiamenti festosi, spensierati e a volte anticonformisti di quei ventenni che salivano verso Assisi cantando al suono della chitarra e gridando slogan. Una generazione che ha fiato accanto a una generazione che non ne ha quasi più. Questo è il secondo punto: la Marcia è un passaggio di testimone, è il lascito, forse uno dei più importanti, di un uomo che aveva letteralmente costruito il pacifismo in Italia – e, in particolare, il pacifismo di matrice nonviolenta – alla generazione di ventenni che stava inaugurando quella che alcuni storici hanno chiamato «la stagione dell’azione collettiva». Da allora in poi la marcia come forma di protesta, manifestazione di dissenso, o soltanto richiesta di attenzione per un particolare tema, vivrà di vita propria anche all’interno della protesta pacifista: le marce per la pace si susseguiranno quasi senza soluzione di continuità per tutti gli anni Sessanta e per il decennio successivo fino a culminare all’inizio degli anni ottanta con le marce contro l’istallazione dei missili a Comiso.
Capitini, invece, subito dopo la Marcia vide messa in discussione la propria leadership sul movimento pacifista. Quei giovani cercavano ormai nuovi maestri e nuove parole. Il paradosso consiste proprio in questo: l’inattualità della figura di Capitini aveva consegnato alla generazione che si stava prendendo la scena uno strumento tra i più moderni e pacifici, che avrebbe segnato di lì in avanti le forme di protesta e le istanze partecipative. Poi, senza recriminare, si era fatta da parte.
Riproduzione riservata