“Si chiama Eleonora, ha due genitori naturali, Alfredo e Laura Zaccheddu, e un padre putativo, il professore Ettore Cittadini, che a Palermo dirige la clinica ostetrica dell'Università”. Trentanove anni fa il quotidiano “la Repubblica” annunciava così la nascita della prima bambina concepita in provetta, per merito di una équipe interamente italiana. Questa la cronaca dettagliata di quello che quasi quarant’anni fa appariva un miracolo:
“I medici di Palermo hanno prelevato la cellula uovo dall'addome della madre aspirandola con un laparoscopio, l'hanno messa su una piastra Petri con uno speciale mezzo nutritivo, hanno aggiunto gli spermatozoi del marito e hanno allevato l'uovo fertilizzato per il periodo in cui avrebbe sostato nell'ovidotto. Quindi hanno inserito quello che ormai era un embrione nell'utero della madre, passando per la vagina. L'embrione ha attecchito e 9 mesi dopo è nata una bimba”.
A voler essere precisi, il “miracolo” era già avvenuto a Napoli l’anno precedente, con la nascita di Alessandra Abbisogno, concepita grazie alla fecondazione in vitro. In quel caso però il merito non era esclusivamente italiano: il professor Abate, infatti, si avvalse delle competenze di una équipe australiana che aveva più dimestichezza nella manipolazione di embrioni.
In ogni caso, a pochi anni dalla nascita di Louise Brown – prima bambina al mondo concepita in provetta nel Nord dell’Inghilterra – anche l’Italia entra in una nuova, entusiasmante fase della storia della medicina. Si stima che da quel momento nel mondo siano nati con procreazione medicalmente assistita oltre 10 milioni di bambini, che con ogni probabilità non sarebbero altrimenti nati.
Nonostante una legislazione piuttosto restrittiva in merito alla possibilità di ricorrere alla Pma (la legge 19 febbraio 2004, n. 40), i dati dei Certificati di assistenza al parto (Cedap) rilevano che negli ultimi anni la quota dei nati in Italia concepiti grazie alle tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma) si attesta attorno al 3%, nel 2004 erano appena l’1,2%. Questi dati potrebbero essere sottostimati, perché si basano sulle dichiarazioni rilasciate all’ostetrica dalle partorienti che per varie ragioni potrebbero celare di aver concepito con Pma.
Dal 1978 ad oggi le tecniche si sono via via diversificate ed evolute. Nel 2021, circa il 5,6% dei parti con Pma ha utilizzato il trattamento farmacologico, il 7,1% ha utilizzato il trasferimento dei gameti maschili in cavità uterina (Iui), la fecondazione in vitro con trasferimento di embrioni in utero (Fivet) riguarda il 43,9% dei casi, mentre la fecondazione in vitro tramite iniezione di spermatozoo in citoplasma (Icsi) il 33,9%.
Le tecniche stanno anche aumentando la loro efficacia: in Europa nel 2018 il tasso medio di gravidanza per trasferimento di embrioni è stato del 34,1% a seguito di una Fivet, del 32,1% dopo Icsi, del 34,3% dopo trasferimento di embrioni congelati e del 49,6% dopo donazione di ovuli. Altro aspetto positivo: si è ridotta la necessità di trasferire più embrioni (secondo una versione originaria della legge 40 del 2004, per ogni ciclo di fecondazione non si dovevano produrre più di tre embrioni e tutti gli embrioni dovevano essere impiantati contemporaneamente. Entrambi questi obblighi sono caduti con una sentenza della Corte costituzionale del 2009). Pertanto, è calata anche la frequenza di parti plurigemellari, che sono un ben noto fattore di rischio per gravidanza e parto. In generale, nelle gravidanze che il Registro italiano sulla Pma è riuscito a seguire e monitorare, nel tempo si osserva anche un minore rischio di gravidanze con esito negativo. I tassi di successo nell’iniziare una gravidanza con Pma però sono significativamente più alti nelle pazienti più giovani (<35 anni), così come anche la possibilità che la gravidanza tanto faticosamente ottenuta abbia poi un esito favorevole.
La durata della vita si è allungata e con essa pare che si amplino tutti gli orizzonti. Tuttavia, non esiste prova che lo spazio fertile segua la stessa tendenza, anzi
Questo impone una considerazione. Nelle società moderne, ci siamo abituati a pensare che l’avere figli dipenda essenzialmente da una scelta individuale e culturale, dimenticando che invece la biologia gioca un ruolo ancora molto importante nella possibilità di realizzare i propri sogni di maternità e paternità. Le difficoltà a concepire non sono affatto rare: si stima che nell’arco della vita una donna su 6 riscontri un problema di infertilità, ossia che dopo 12 mesi in cui prova ad avere figli non riesca a concepire. Gli studi condotti in diversi Paesi mostrano che l’infertilità è legata a cause fisiologiche nella donna solo nel 20-35% dei casi, a condizioni fisiologiche dell'uomo nel 20-30% dei casi, mentre nel 25-40% dei casi è dovuta a problemi di entrambi i partner. Non viene individuata alcuna causa evidente nota alla medicina nel rimanente 10-20% dei casi.
Una serie di fattori individuali contribuisce ad accrescere il rischio di infertilità: ad esempio l’obesità, l’assunzione di alcool o droghe, particolari patologie come l’endometriosi, l’assunzione di farmaci, come i chemioterapici. Tuttavia, il pericolo più subdolo è rappresentato ancora dalla discriminante età: la Società europea di riproduzione umana ed embriologia avverte che le donne con meno di 30 anni hanno circa il 20% di probabilità di rimanere incinte in un mese; ma tale probabilità cala drasticamente all’età di 40 anni, riducendosi al 5%.
La durata della vita si è allungata e con essa pare che si amplino tutti gli orizzonti. Tuttavia, non esiste prova che lo spazio fertile segua la stessa tendenza, anzi. Il miglioramento delle condizioni di vita e dell’alimentazione ha ridotto l’età al menarca, anticipando quindi anche la fine del periodo fertile. A partire dai 37 anni, le donne non hanno più il 90% degli ovuli. E se gli uomini producono spermatozoi per tutta la vita, anche la qualità dello sperma subisce un deterioramento con l’età, con un aumento di rischio di aborto spontaneo e di alcune patologie nella prole.
Il momento migliore per concepire dal punto di vista biologico (prima dei 30 anni), purtroppo non coincide più con il momento “socialmente” più adatto (dai 30-35 anni), perché i ventenni sono occupati giustamente ad accrescere il loro capitale umano e cercare un lavoro che dia un reddito adeguato e con qualche garanzia di certezza; hanno bisogno di tempo per formare una relazione stabile e cercare un’abitazione. Non è un caso che nel 1970 l’età media al primo figlio fosse di 25 anni, mentre nel 2021 fosse 31,6. Oggi la proporzione di nati da madri over 40 in Italia è tra le più alte in Europa, sfiorando il 9%. Purtroppo, però, più tardi si inizia a provare ad avere figli, più tardi ci si accorge delle eventuali difficoltà e più è difficile correre ai ripari, anche utilizzando la riproduzione assistita. Ad esempio, le donne fecondate con tecniche a fresco con gameti della coppia hanno in media 36,9 anni (gli ultimi dati dal registro europeo riportano un’età media in Europa di 35 anni per il 2017). Aumenta sensibilmente, tra le donne che si sottopongono alle tecniche di Pma, la quota di donne over 40: da una su cinque nel 2005, a più di una su tre (35,8%) nel 2020.
La consapevolezza dei limiti biologici nella riproduzione dovrebbe essere promossa in maniera più decisa, anche con campagne informative, per evitare che la Pma si trasformi in una pericolosa illusione di eterna fertilità
La Pma talvolta concede un tempo supplementare, ma non può sempre fare miracoli: se le coppie vi ricorrono tardivamente, le probabilità di riuscita si assottigliano decisamente. All’aumentare dell’età, il rapporto tra gravidanze ottenute e cicli iniziati subisce una progressiva flessione, così come aumenta il rischio che la gravidanza faticosamente ottenuta non si concluda felicemente. I tassi di successo per dare inizio a una gravidanza, calcolati per cicli iniziati, diminuiscono linearmente dal 18,1% per le pazienti con meno di 35 anni al 4,5% per quelle con più di 43 anni. Nel nostro Paese la possibilità di avere un bambino dopo un tentativo di Fivet (con le attuali regole) è del 30% circa per le donne sotto i 35 anni, ma solo del 10% circa per le donne 40 e 44 anni e si azzera quasi per donne di più di 45 anni. Il miracolo è possibile, ma in tarda età improbabile.
La consapevolezza dei limiti biologici nella riproduzione umana dovrebbe essere promossa in maniera più decisa, anche con campagne informative, per evitare che la Pma si trasformi in una pericolosa illusione di eterna fertilità che in tarda età potrebbe rivelarsi invece una totale delusione, con tutto il carico di sofferenza che un fallimento comporta nei soggetti coinvolti. Ci vorrebbe anche un altro piccolo miracolo: una serie di cambiamenti che riescano a riallineare i tempi biologici con quelli sociali, sostenendo veramente le giovani generazioni nel loro percorso di autonomia e crescita. Non era forse anche questo uno degli obiettivi di Next generation Eu?
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