Il 23 dicembre 1978 l’Italia si fece un bellissimo regalo di Natale: l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Se lo meritava. Era un periodo difficile, per l’Italia. Si era sotto il governo Andreotti IV, velocemente votato, i giorni successivi al sequestro Moro con l’appoggio esterno del Pci. In più, la crisi energetica, dovuta all’alto prezzo del petrolio, di lì a pochi mesi avrebbe toccato il suo culmine. Per non parlare del terrorismo: oltre a Moro, eravamo nel pieno degli anni di piombo: il piombo delle P38 e il piombo senza speranza del colore del cielo di quegli anni. Oltre al tacco di Paolo Rossi, che quel 10 giugno 1978 manda in gol Roberto Bettega ai mondiali di Argentina proprio contro i padroni di casa, poche soddisfazioni quell’anno.

La nascita del Servizio sanitario nazionale mette fine alla copertura sanitaria fornita dalle mutue. Si trattava di un sistema iniquo per le persone e dispendioso per lo Stato. L’assicurazione della mutua era legata al posto di lavoro e questo comportava grandi differenze di assistenza a seconda del lavoro svolto, si trattava di un sistema assicurativo che discriminava a seconda della classe sociale. Inoltre, i costi sanitari crescevano in maniera esponenziale visto che non vi erano meccanismi di controllo della spesa e già nel 1974 lo Stato era dovuto intervenire pesantemente per estinguere tutti i debiti che le mutue avevano con gli ospedali. Per ultimo, le mutue coprivano eminentemente le spese mediche prestazionali: quindi niente prevenzione, poca riabilitazione, nessuna attenzione per il socio-sanitario. In sintesi, le mutue erano costose, obsolete, ingiuste. 

Il ministro della Sanità durante il varo della riforma era Tina Anselmi, la prima donna a diventare ministro in Italia (qui il calendario civile la descrive). Ad attuare la riforma, tuttavia, sarà il ministro che le succedette nel successivo governo, il liberale Renato Altissimo. Ironicamente, il Pli era stato l’unico partito a votare contro la riforma sanitaria.

L’articolazione del Servizio sanitario nazionale si sarebbe sviluppata lungo tre livelli: Stato, regioni, comuni. Allo Stato spettavano le funzioni di indirizzo e coordinamento, anche per salvaguardare l’uniformità dell’offerta sanitaria su tutto il territorio nazionale. Alle regioni, con lo Stato, il compito di fissare gli obiettivi della programmazione sanitaria (oltre ad altre funzioni, ovviamente). Ai comuni, magna pars della riforma, spettavano tutte le funzioni amministrative non di pertinenza dello Stato o delle regioni. Il braccio operativo dei comuni erano le Unità sanitarie locali, gli avi delle odierne Aziende sanitarie locali.

Tra le tante innovazioni rispetto al sistema precedente, due aspetti sono fondamentali: universalismo e globalità. Riprendendo la Costituzione, la salute viene infatti riconosciuta come «diritto dell’individuo e interesse della collettività», ovvero la copertura sanitaria diviene universale, a prescindere dall’occupazione. In secondo luogo, col Servizio sanitario nazionale, le componenti della salute non si esauriscono nell’assistenza sanitaria, ma vengono riconosciute esplicitamente anche le dimensioni della prevenzione, della riabilitazione e della promozione della salute. Dunque, si supera l’assolutizzazione parziale del «trattamento sanitario» – in fondo «ospedalocentrico» – per aprirsi a fasi non solo di bisogno acuto. La salute viene considerata nella sua globalità.

Sulla scena sanitaria viene finalmente legittimato anche un altro attore della salute. L’articolo 45 infatti riconosce l’importanza delle associazioni di volontariato per il conseguimento dei «fini istituzionali» del Ssn. Sappiamo come negli anni a venire, soprattutto per l'irresistibile crescita delle malattie croniche, il volontariato giocherà un ruolo fondamentale nell’ambito di tutte le componenti della salute: dalla prevenzione alla riabilitazione. È una dimostrazione di grande forza dello Stato, questa, perché è come se dicesse: «Io, Stato, ho bisogno dei miei cittadini per realizzare le mie finalità nell’area sanitaria». Viene riconosciuto che la vicinanza ai bisogni delle persone è un fattore fondamentale, insieme alla solidarietà, per la loro soddisfazione.

Ma le rose hanno tante spine e ben presto cominciarono i problemi per il Ssn. Innanzitutto, il primo Piano sanitario nazionale, anziché essere contestuale o comunque ravvicinato temporalmente alla legge 833, fu approvato nel 1994. E dire che doveva essere lo strumento operativo del Ssn! In secondo luogo, le Unità sanitarie locali divennero ben presto il più eclatante esempio di lottizzazione politica del Paese visto che i loro comitati di gestione venivano decisi in Consiglio comunale. Inoltre, non vi era un meccanismo chiaro di responsabilizzazione per la spesa sanitaria. Con questa architettura istituzionale non è quindi sorprendente che i costi divennero presto insostenibili e si dovette, nel 1992, attuare una «riforma della riforma» con i caratteri della managerializzazione, aziendalizzazione e razionalizzazione.

Criticare il Ssn è, per rimanere in tema, come «sparare sulla Croce Rossa». Tuttavia, la denigrazione del settore pubblico, in tema di salute, non appare sempre convincente. Con preveggenza la Costituzione definì la salute un diritto: non un bene, né un bisogno da soddisfare sul mercato. Gli Stati Uniti rappresentano l’esempio più eclatante del fallimento della managed care, basti pensare che con l’affossamento della riforma sanitaria di Obama, ci sono ancora decine di milioni di americani senza copertura sanitaria. Il paradosso è che negli Stati Uniti ci sono due assicurazioni pubbliche (medicare, per gli anziani; medicaid per gli indigenti) abbastanza efficaci. Tuttavia la spirale dei costi sanitari spinta dal profitto ha portato la spesa sanitaria a superare il 17% del Pil e paradossalmente la metà di questa è spesa pubblica. Dunque, alte spese sanitarie pubbliche, alte spese sanitarie private, nessun universalismo.

Il Covid-19 è un’eccellente cartina di tornasole per verificare l’efficienza dei sistemi sanitari. Con la forte regionalizzazione promossa dalla riforma del 1992, in Italia l’offerta sanitaria si presenta in modo estremamente variegato. Spinta anche da interessi finanziari, la Lombardia si caratterizza per un sistema regionale molto sofisticato nell’ambito della diagnostica e dell’assistenza ospedaliera, ma con una medicina del territorio depauperata, cosa che non si può dire per regioni come Veneto e Emilia-Romagna che infatti hanno retto maggiormente l’emergenza Covid-19 – fatto salvo comunque di un numero di contagi minore rispetto alla Lombardia.

Ricalcando una famosa citazione di Churchill si potrebbe dire che il Servizio sanitario nazionale è il peggior sistema di governo della salute esistente, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate finora. Un sistema universalistico a base pubblica è l’unico modo per dar corpo alla celebre locuzione, datata 1848, di colui che fu contemporaneamente il primo citologo e un grande medico di comunità, Rudolf Virchow: «La medicina è una scienza sociale e la politica non è altro che medicina su larga scala».