Alla fine, le feste di "Cuore" erano una sorta di presagio. Sinistro, naturalmente. Un avviso di chiamata della Storia. Un sussulto aggregazionista prima che la cosiddetta sinistra perdesse definitivamente il cosiddetto contatto con le cosiddette masse. Rappresentavano, senza rendersene conto, una cerimonia di commiato. Allegra come un fescennino, ma pur sempre funerea. Un po’ come Troppo frizzante, la finta sit-com di un finto Canale 5 con finti attori di un finto Bagaglino, dove il vero regista di Occhi del cuore, la soap opera che fungeva da pretesto a Boris – ossia, semplicemente, la serie italiana definitiva –, cercava invano di incassare denaro contante prima di ritornare al tran-tran della bassa cucina strappalacrime. “Duccio – diceva al suo direttore della fotografia – ma perché non accendi due luci? Di solito apri tutto”. “Perché è chiaramente una metafora: gli attori sono morti”.
Eravamo morti e festeggiavamo. Cioè, un attimo. Io festeggiavo poco, perché intanto, a proposito di cucina, me ne stavo quasi sempre in redazione a buttare in pagina articoli e vignette, mentre altri più bravi (non scherzo) si immergevano nel Gange padano, l’Enza, insieme a decine di migliaia di adepti e a un numero di zanzare appena inferiore.
E poi, come trapasso, aveva un bel che di vitale. Intanto i lombi da cui fuoriusciva. Ossia "Cuore", settimanale satirico erede di "Tango", versione anni Novanta dell’antica abitudine progressista di leggere la contemporaneità, anche la propria, facendone scempio. Ancor prima c’era stato "il Male", eroico ed eroinomane, figlio del suo tempo. Poi, appunto, il suo erede più ortodosso, costola de "l’Unità", infedele alla linea ma mica poi tanto, che abbassò la serranda per colpa di un Forattini apocrifo – di Staino: ritraeva il segretario Natta che ballava sulle note di Craxi e Andreotti – e infine noi.
Dove persino “noi” è un parolone. Perché quando "Cuore" era già "Cuore", lo scrivente, cronista alle primissime armi, andava in pellegrinaggio a Montecchio dell’Emilia, scrigno della festa, da lettore semplicissimo. Per cercare di capire come la pensava. Per cibare la propria coscienza politica in via di formazione. Per apprendere, anche dal vivo, che eravamo appunto a un millimetro dalla dissoluzione. Ma almeno sapevamo riderne.
Come quell’anno, direi il ’90, in cui l’ingresso della Festa era triplo: un arco imponente per la mozione 1 (quella che voleva il cambio di nome del Pci), uno meno nobile per la 2 (quella che sì, insomma, un attimo, ma il Muro di Berlino mica l’avevamo costruito noi) e una feritoia per la 3. Che voleva continuare a chiamarsi comunista e possibilmente farsi mummificare ed esporre sulla Piazza Rossa. Entrai dalla 2.
Celebravamo la nostra scomparsa. Eravamo quasi ad Arcore ma ci piaceva pensarci ancora non dico a Stalingrado, ma almeno a Woodstock. Il partitone collassava e cercavamo la terza via. A tentoni. Tra rutti e realtà.
Perché certo, il rito collettivo imponeva lo gnocco fritto, i due di picche o il sesso libero del campeggio, lo stillicidio dei bonghi tra le tende che rischiò di provocare vere e proprie guerre civili, incassi che avrebbero tranquillamente consentito al Pds locale di comprarsi l’Ungheria senza neanche invaderla, l’aspetto ludico dell’avvitamento verso il nulla. Eppure, a differenza che nelle già agonizzanti feste dell’Unità, i momenti di discussione e confronto erano persino più frequentati rispetto alla crapula.
C’era Zelig prima di Zelig, c’era la sfilata di comici e satirici, ma – anche – una forma di resistenza umana (dal sottotitolo dato da Andrea Aloi) molto concreta. Nel ’94, con Berlusconi che aveva appena vinto le elezioni ma, ovviamente, stava per mandare tutto in vacca per insipienza personale, liti feudali con Bossi e cascami di Mani Pulite, sul palco di Montecchio arrivò la spallata che lo fece precipitare dai tacchi. D’Alema tese la mano a Rocco Buttiglione, allora segretario del Partito popolare e, con l’augusta benedizione del Mago Otelma, apparve all’orizzonte il governo Dini.
Non solo: la nascita di Romano Prodi come leader dell’Ulivo si deve al tribunale del popolo delle Brigate Molli, gruppo terrorista non violento (slogan: “Condirne uno per educarne cento”) cui il professore si consegnò come ostaggio consenziente, percorrendo i pochi metri che separavano la sua abitazione dalla redazione di via Castiglione. Un’intervista programmatica, cui seguì la trionfale campagna elettorale che documentammo in modalità Pravda (guidavo personalmente la Duna di "Cuore", che seguiva il pullman del prof.) e l’abbrivio per la fine del giornale e delle feste. Ché l’obiettivo era raggiunto.
Fuor di contronarrazione, di inevitabile autodafé postumo, ché se ho imparato qualcosa in quegli anni è a non prendermi sul serio soprattutto quando dico cose serissime, le feste di "Cuore" costituivano l’anello di congiunzione tra il reale e il virtuale che oggi manca alla classe politica di sinistra, incapace di trovare il ponte tra i – modesti – consensi social, la propria propaganda inefficace – figlia com’è di una proposta culturale svilita, slabbrata, trasparente, di una sudditanza al linguaggio altrui che nel periodo renziano era lancinante, profetica, rivelatrice, drammatica – e il Paese reale.
Ogni giorno ci arrivava un sacco di posta. Un sacco, letteralmente: un cosone di iuta bardato di tricolore e ripieno di lettere, segnalazioni, “delazioni”, suppliche, semplici inviti a tenere duro. Tutta gente che non si contentava della liturgia settimanale e appunto planava a Montecchio. Tutta gente che in parte abbiamo (hanno) perso per strada dacché le parole chiare sono scomparse come lacrime nella pioggia, prima per convenienza, poi per conseguente inadeguatezza, finché non c’era più nulla da dire perché non c’era più nulla da rappresentare.
A rifarla oggi, la più improbabile delle Feste, ci si ritroverebbero probabilmente tizi di estrema sinistra, elettori del Pd in cerca di casa, non pochi grillini, persino qualcuno che ha fatto il giro e veleggia dalle parti della Lega o, magari perché travolto dalle paure indotte dal Partito Unico Cattivista, vota addirittura i fratelli del duce.
All’epoca, dopo la cattura di un dirigente Pds da parte del Pool, i giornali di destra ironizzavano su chi era andato per anni a cuocere salamelle ed era diventato come Craxi. Michele Serra rispose che quei fornelli li aveva frequentati per se stesso. Per sentirsi maggioranza anche se non lo era o non lo sarebbe mai stato. Per fare politica da privato. E tanto gli bastava. Un po’ come chi calava a Montecchio.
Odio il reducismo, benché quel giornale e la sua gente mi abbiano cambiato la vita. Forse, salvata. Ma credo di aver capito, a distanza di tanti anni, ciò che ho scritto in premessa. E il suo motivo. Eravamo morti. Perché, appunto, facevamo politica. Per questo festeggiavamo.
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