Fra le date istituzionali che segnano la storia del nostro Paese, spesso si dimentica quella che pure marca un momento fondante dell’Italia repubblicana, inscindibile dal parallelo processo costituente: il 22 giugno 1946, infatti, con un’amnistia comunemente nota con il nome del ministro della Giustizia proponente e segretario del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, il governo di unità nazionale De Gasperi I sceglie di esercitare il potere di clemenza per i crimini del fascismo e della Repubblica sociale italiana. A soli quattordici mesi dalla fine della Seconda guerra mondiale, con un provvedimento che non ha eguali negli altri Paesi europei, i vincitori danno pertanto forma legislativa alla rinuncia all’uso della persecuzione penale e della pena nei confronti dei vinti e delle loro terribili gesta fratricide. È il primo, importante momento in cui l’Italia deve scegliere fra persecuzione e punizione penale, da un lato, e rinuncia alle stesse, dall’altro. L’amnistia Togliatti rappresenta il tratto cardinale della transizione dell’Italia alla democrazia, del “fare i conti” con il fascismo e con la guerra civile, sia nella prospettiva dell’elaborazione collettiva, sia in quella della costruzione del nascente ordinamento repubblicano.
Fra il 1945 e il 1947, le Corti straordinarie di Assise celebrano più di 20 mila processi, forse 30 mila, a carico di fascisti e collaborazionisti. Il provvedimento di clemenza giunge dopo l’abolizione della monarchia (il 2 giugno), ma prima della nomina del capo provvisorio dello Stato (il 28). Essa viene pertanto emanata direttamente dal presidente del Consiglio De Gasperi, su proposta di Togliatti. È significativo che il provvedimento più importante per la transizione italiana sia puramente governativo, pur se si tratta di un governo composto da tutte le forze cielleniste. Non c’è coinvolgimento né del Parlamento (che ancora non c’è), né della Costituente, né dei cittadini tramite la democrazia diretta, come era stato fatto per la forma di Stato. Quella di Togliatti non è l’unica amnistia; tuttavia, è il presupposto logico fondamentale delle altre, l’apparente «contraddizione della storia» (così U. Eco, Numero Zero, Bompiani, 2015, p. 40).
Sulla carta, l’amnistia doveva essere solamente parziale e limitata su un piano oggettivo – ai fatti meno gravi – e soggettivo – solo ai sottoposti. Nella pratica fu un’amnistia generalizzata
Sulla carta, l’amnistia doveva essere solamente parziale e limitata su un piano oggettivo – ai fatti meno gravi – e soggettivo – solo ai sottoposti. Nella pratica fu un’amnistia generalizzata. Lo iato va addebitato, da un lato, al noto attivismo della magistratura, non epurata, in particolare quella di Cassazione. Tuttavia, vi sono responsabilità ulteriori, che si rinvengono nel testo del decreto stesso, che usa un lessico spesso ambiguo e atecnico. Il limite principale sta nel ricorso a categorie generali per la disciplina delle eccezioni, il che trasferisce sul giudicante un potere discrezionale che non gli compete.
Non siamo dunque, come nella Spagna del 1977, di fronte a una scelta espressa di impunità generale e oblio. Nel caso italiano vi è un volere e disvolere, un’enorme minaccia sanzionatoria iniziale, seguita da una deroga parziale e da un risultato pratico che si traduce pressoché in niente. Gli storici sono divisi sulla responsabilità del legislatore. Secondo alcuni, vi sarebbe imperizia o negligenza dei consiglieri di Togliatti. Secondi altri, invece, sarebbe una responsabilità dolosa, una sorta di blame deflection: essendo Togliatti consapevole dell’impossibilità concreta di perseguire i crimini, ma non volendo apertamente concedere un’amnistia generale, avrebbe così scaricato tutta la responsabilità sulla magistratura agli occhi dell’opinione pubblica. Vi è infine chi parla di un dolo dei funzionari ministeriali in danno a Togliatti stesso.
Si può poi riflettere sul rapporto fra l’impunità per i crimini del fascismo e il processo costituente e di transizione pacifica alla democrazia. Come l’esperienza sudafricana insegna, infatti, la scelta fra punizione e clemenza in sede transizionale ha sempre un ruolo costituente. L’amnistia, in un certo senso, fa parte della creazione del “mito dell’antifascismo” su due livelli: vi è prima la finzione di un concetto di antifascismo presente all’interno della Costituente, come guida in positivo nella redazione della Costituzione; vi è poi una seconda finzione, che è quella dell’Italia come Paese antifascista nella sua maggioranza. Questo secondo livello di finzione qualifica l’Italia, da un lato, come vittima della guerra voluta dal solo Mussolini per compiacere l’alleato tedesco, dall’altro, come Paese eroico, in quanto auto-curatore della propria “malattia” fascista. Sono queste le premesse che hanno trasformato un fenomeno non maggioritario (l’antifascismo militante) in un fenomeno nazionale alla base di una Costituzione. Dietro il termine “antifascismo”, vi è dunque questa torsione concettuale, che priva tale concetto di un legame effettivo con le colpe del fascismo e con l’opposizione e resistenza allo stesso. Il concetto di antifascismo, collante in negativo di ideologie diverse e ben poco definito in positivo, viene sì usato come fattore propulsivo del nuovo ordine costituzionale e fattore coesivo, ma svuotato e distorto, con funzione di ideologia della ricostruzione. Nel lungo periodo, tuttavia, va preso atto di come la contropartita di tutti noi per l’impunità dei fascisti sia stata una Costituzione democratica che ha posto la base per una cultura dei diritti.
La società italiana, per motivi diversi, ha interpretato l’amnistia come autoassoluzione, trasformando l’amnistia in amnesia
Molto più severo, invece, deve essere il giudizio in relazione all’apporto del processo penale alla ricerca della verità e alla costruzione di una memoria collettiva dei crimini del fascismo, come ho tentato di spiegare qui e qui. Tuttavia, non è corretto collegare l’assenza di una memoria collettiva del fascismo esclusivamente alla mancanza di persecuzione penale determinata dall’amnistia. Il fallimento va cercato semmai negli anni successivi, quando la ricostruzione è stata portata avanti, la democrazia ha raggiunto una certa stabilità e il popolo italiano, in particolare le nuove generazioni, non chiedono conto al proprio Paese delle responsabilità passate, né in forma giudiziaria, né in altre forme. L’amnistia interviene infatti solo sulla persecuzione penale di determinati fatti, ossia sull’applicazione della pena ai condannati per gli stessi. Tuttavia, l’azione penale e la pena non sono lo strumento attraverso il quale si realizza una transizione, ma sono semmai uno degli strumenti che concorrono a realizzare un processo complesso e che dura nel tempo, fatto anche di meccanismi stragiudiziali e di elementi costituzionali, politici, antropologici e culturali.
La società italiana, per motivi diversi, ha interpretato l’amnistia come autoassoluzione, trasformando l’amnistia in amnesia, quando invece in altri contesti proprio la rinuncia alla pena ha fornito la base per la costruzione di uno spazio di narrazione condivisa e forme non punitive di attribuzione di responsabilità (accountability). In Italia, invece, per motivi molto differenti, nessuna delle forze politiche dell’Italia repubblicana – soprattutto nella cosiddetta Prima Repubblica – ha avuto un interesse al confronto con i crimini del fascismo come prodotto della società italiana e con cui confrontarsi. Non ci riferiamo solo ai crimini commessi in Italia – compreso il ruolo degli italiani nella Shoah - ma anche a quelli nelle colonie, nella Guerra di Spagna e nei Balcani ai danni delle popolazioni civili.
In un’Italia che ancora oggi perpetua memorie opposte del fascismo e adatta ai conflitti del presente le categorie di “fascista” e “antifascista”, manca ancora una volontà di confronto con i crimini e della costruzione di spazi di memoria diversi dal processo penale. La transizione italiana, pertanto, è processo tutt’altro che concluso.
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