È del 21 aprile 2015 la determina dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) che segna un importante passo avanti rispetto alla contraccezione in Italia: le donne maggiorenni possono (finalmente) acquistare i farmaci per la contraccezione di emergenza senza alcun obbligo di prescrizione medica e senza la necessità di presentare in visione un test di gravidanza con esito negativo. La determina si riferisce alle cosiddette “pillola del giorno dopo” e “pillola dei cinque giorni dopo”, farmaci finalizzati alla contraccezione di emergenza nel caso di un rapporto sessuale non protetto o “a rischio”. Si tratta di interventi farmacologici contraccettivi perché, se assunti non oltre le 72 o le 120 ore dal rapporto sessuale, riducono il rischio di gravidanza (impedendo la fecondazione o posticipando l’ovulazione), ma non la ostacolano se il processo di impianto dell’embrione è già iniziato.
Giusto sei anni prima era stata introdotta anche nel nostro Paese la cosiddetta “pillola abortiva”, ovvero la possibilità di ottenere in ospedale la somministrazione di due principi attivi diversi, il mifepristone, noto come RU486, e una prostaglandina, per poter interrompere una gravidanza già in corso. Si tratta di date significative, importanti nella memoria civile di un Paese, non solo come successi (né, tantomeno, come punti di arrivo), ma come momenti che obbligano ad aprire una riflessione sulla contraccezione oggi in Italia.
La determina dell’Aifa, che compie quattro anni, ha sicuramente il merito di aver rimosso un importante ostacolo nell’accesso alla contraccezione di emergenza farmacologica: la possibilità di acquisto diretto in farmacia, infatti, evita la messa in atto di un’obiezione di coscienza (illecita, visto che si tratta di dispositivi anticoncezionali e non abortivi) da parte dei medici. Ma è presto per cantare vittoria, per diversi motivi. Il suddetto ostacolo persiste infatti per le minorenni e, più in generale, nei casi in cui farmacisti e farmaciste si rifiutano di dispensare tali farmaci (agendo un’altra forma di obiezione di coscienza illecita, perché non prevista dalla normativa esistente per questa figura professionale). Il costo economico, inoltre, non è trascurabile: la spesa per le pillole del giorno dopo, e in generale per tutti i contraccettivi, rimane ancora oggi a totale carico delle singole persone, e a livello nazionale non sono previste agevolazioni economiche di alcun tipo. Alcune regioni stanno cercando di colmare questa carenza attraverso diversi interventi legislativi. Un esempio è quello dell’Emilia-Romagna, che dal 2018 ha previsto, presso i servizi consultoriali, la distribuzione gratuita della contraccezione per le donne e gli uomini di età inferiore ai 26 anni e per le donne di età compresa tra i 26 e i 45 anni in difficoltà economiche nei due anni successivi a un’Ivg e nell’anno dopo il parto. L’accesso alla contraccezione d’emergenza farmacologica rimane insomma problematico e caratterizzato da differenze regionali che non garantiscono un’universalità dei diritti contraccettivi.
Ma la data della determina dell'Aifa e il suo contributo a un maggiore riconoscimento dei diritti contraccettivi parla alla memoria del nostro Paese anche come tassello di un quadro più ampio, su cui è importante mantenere alta l'attenzione: quello dell'evoluzione e della stagnazione dei diritti riproduttivi, del controllo delle nascite e della diffusione di una cultura riproduttiva consapevole.
Dal punto di vista diacronico, molte cose sono certamente cambiate negli ultimi decenni. Si è affermata una cultura che ha scisso sempre di più sessualità, da una parte, e procreazione, costituzione di una famiglia o di un legame di coppia, dall’altra. Negli ultimi decenni l'età mediana al primo rapporto sessuale si è gradualmente abbassata (è oggi 18 anni) e una quota sempre più ampia di donne ha rapporti prima dei 16 anni, mentre si è alzata l’età al primo figlio. È chiaro quindi che si è allungato mediamente il periodo della vita in cui si attuano i comportamenti contraccettivi efficaci: se nel 1979 il metodo maggiormente utilizzato dalle coppie era il coito interrotto, nel 2006 si preferiscono la pillola e il profilattico. La gravidanza indesiderata, d’altronde, giunge nella stragrande maggioranza dei casi in seguito al fallimento di un metodo contraccettivo.
Se adottiamo un punto di vista comparato, tuttavia, vediamo anche che l’Italia è ancora in affanno. Se in altri Paesi da diversi decenni l’educazione sessuale e all’affettività è pratica diffusa e pienamente accettata (e istituzionalizzata) all’interno dei percorsi formativi e in diversi ambiti culturali e mediatici, nel nostro essa è ancora (e forse oggi più che in passato) oggetto di forti attacchi, oltre che di differente riconoscimento da regione a regione, quando non relegata alla sensibilità di singoli istituti o docenti.
I consultori familiari dovrebbero essere uno dei principali motori di interventi educativi su larga scala, ma non riescono ad esserlo perché da anni manca un adeguato investimento in termini economici, istituzionali e politici, oltre che simbolici. Da “servizi di frontiera”, nati negli anni Settanta grazie all’intersezione tra istituzioni e movimenti delle donne, essi rischiano oggi di svuotarsi di senso simbolico e politico e di trasformarsi in servizi ambulatori (spesso frequentati dalle fasce più deboli della popolazione), privi di quella componente “consultoriale” e di promozione di autodeterminazione che ha caratterizzato la loro nascita. Non mancano iniziative che, a livello nazionale e regionale, propongono una loro (ri)valorizzazione. Ma molta strada c'è da fare per realizzare gli obiettivi della legge che nel 1975 li istituiva.
Per non parlare delle problematicità connesse all’accesso all’aborto oggi in Italia. A più di 40 anni dall’approvazione della legge 194, il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza viene sempre più spesso messo in discussione. Al di là dello stato infimo dei dibattiti attuali rispetto a questo tema, si assiste a due tendenze preoccupanti: da un lato, l’aumento dell’obiezione di coscienza, che nel 2017 ha riguardato a livello nazionale il 68,4% di ginecologi e ginecologhe (toccando in alcune regioni punte vicino al 90%); dall’altro, il difficile accesso all’aborto farmacologico, ostacolato in molti casi dai medici stessi e, in generale, dai tempi stretti entro cui si può intraprendere in Italia. Questi fenomeni, anch’essi caratterizzati da forti differenze regionali, costringono molte donne a migrare in altre regioni (se non in altri Paesi) per riuscire ad abortire entro i tempi consentiti dalla legge, e stanno riportando in alcuni casi l'aborto alla clandestinità (attraverso l’importazione di farmaci dall’estero o l’acquisto di farmaci in commercio per altre patologie ma comunque abortivi).
Queste difficoltà rispetto alla contraccezione e all’aborto, paradossalmente, vanno in parallelo con altrettante difficoltà nell’accesso alle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, soprattutto, ma non solo, per coloro che non rientrino nella casistica della legge 40/2004 (che stabilisce che solo le coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate oppure conviventi, possano accedere alla procreazione medicalmente assistita).
In realtà, non si tratta di un vero paradosso: gli ostacoli nella contraccezione, nell’aborto e nella procreazione assistita sono da leggersi come manifestazione della stessa mancanza di cultura dei diritti riproduttivi. Dietro questa mancanza sembra esserci un’idea di “naturalità” della vita sessuale e riproduttiva che, nonostante la diffusione di analisi scientifiche che da moltissimo tempo ne sottolineano infondatezza e problematicità, necessita di essere messa in discussione anche su un piano culturale e politico.
La determina dell’Aifa rappresenta, insomma, solo uno dei passi verso una piena affermazione dei diritti riproduttivi in Italia. Ma se non è accompagnata da una piena evoluzione in termini culturali, ad esempio da una diffusione capillare di pratiche di educazione alla sessualità e all’affettività (ma anche al genere e alle differenze) e da una vera accessibilità alla contraccezione, all’aborto e alle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, rischia di diventare una data boicottata nelle pratiche e, dunque, svuotata di senso.
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