Il 18 e 19 aprile di ventinove anni fa, gli italiani furono chiamati a esprimersi su ben otto quesiti referendari. Tra questi, quello che chiedeva la depenalizzazione dell’uso delle droghe leggere non fu certo ultimo per la vivacità del dibattito suscitato. Più precisamente, il quesito riguardava una quindicina di commi da sopprimere in parte o in toto del Dpr del 9 ottobre 1990, n. 309, "Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossico-dipendenza", più noto come legge Jervolino-Vassalli (dal nome dei due proponenti).
Si trattava del quarto maggiore provvedimento legislativo introdotto in Italia per disciplinare la filiera degli stupefacenti. Il primo aveva visto la luce nel 1923, il secondo nel 1954 e il terzo nel 1975. Il provvedimento del 1923 recepiva l’obbligo di adeguare la legislazione nazionale al Trattato dell’Aia del 1912 sul commercio degli stupefacenti, un commercio che peraltro in Italia era indirizzato quasi esclusivamente all’uso terapeutico, essendo quello voluttuario estremamente limitato.
Similmente il provvedimento entrato in vigore nel 1954 fu motivato dalle forti pressioni internazionali a inasprire un regime sanzionatorio ritenuto troppo indulgente (sebbene, come osservò un giovane Oreste Del Buono, l’italiano medio il vizio degli stupefacenti non lo capisse, e di conseguenza tale vizio rimanesse assai marginale). Ne risultò una disciplina assai dura che implicava la carcerazione preventiva per il semplice possesso di uno spinello e rendeva cauti i medici nella prescrizione di oppiacei anche nel caso di dolore oncologico. Come è ben noto, tanto rigore non prevenne l’esplosione dell'epidemia di consumo di eroina che tribolò l’Italia a partire dagli anni Settanta come mostra la storica serie di sequestri: se nel 1971 fu requisito un solo kg di eroina, dieci anni dopo i kg furono 197, e nel 1991 si superò la tonnellata e mezzo.
Il provvedimento particolarmente repressivo del 1954 non servì a prevenire l’esplosione dell'epidemia di consumo di eroina che tribolò l’Italia a partire dagli anni Settanta
A questo evidente fallimento nel prevenire la diffusione dell’uso non terapeutico degli stupefacenti si cercò di porre rimedio con il terzo provvedimento che, elaborato in un periodo di incisive riforme socio-sanitarie (si pensi all’istituzione del Servizio sanitario nazionale di cui si è raccontato in questa stessa rubrica), innovava profondamente un regime disciplinare che aveva dimostrato – scrisse un magistrato – come una legge estremamente repressiva non serviva ad arginare un fenomeno dalle profonde radici sociali. Elemento caratterizzante della legge del 1975 fu lo spezzare la solidarietà tra spacciatore e consumatore, inasprendo le pene per il primo e inserendo il secondo in un percorso di recupero sociosanitario contestualmente alla distinzione tra droghe pesanti e leggere e alla depenalizzazione della detenzione di minimi quantitativi di stupefacente (le cosiddette «modiche quantità»).
Arriviamo dunque alla Jervolino-Vassalli, che nel 1990 ricondusse il consumo di stupefacenti nell’ambito dell’illecito penale seppure alla condizione che la quantità detenuta fosse superiore a una dose media giornaliera stabilita in apposite tabelle, cercando un difficile compromesso tra il proibizionismo del 1954 e l’assistenzialismo del 1975. Questo inasprimento della disciplina fu quindi l’oggetto del quesito referendario, la cui abrogazione fu approvata con una maggioranza del 55% dei votanti. La detenzione per consumo personale veniva così ricondotta nell’ambito dell’illecito amministrativo. Andò invece delusa l’aspettativa che l’esito referendario inducesse il legislatore a porre mano a un intervento organico che ne recepisse lo spirito. Non solo: quando tale intervento avvenne – nel 2006 con la Fini-Giovanardi – si pose in netta contrapposizione con quello spirito. Sarebbero dovuti passare otto anni perché la Fini-Giovanardi fosse dichiarata incostituzionale, aprendo una stagione di interventi frammentari con un recentissimo nuovo quesito referendario, questa volta indirizzato ad abrogare la proibizione della coltivazione della cannabis, respinto tuttavia dalla Corte costituzionale perché poteva interpretarsi come esteso ad altre piante psicotrope, vedi papavero da oppio.
Nel suo insieme questo andamento altalenante, che potrebbe essere interpretato come il frutto di processi decisionali ondivaghi, ha dato il destro alla giurista Ombretta Di Iovine per notare che nel nostro Paese le ideologie in tema di droga hanno fatto continuamente oscillare il pendolo della legislazione positiva, sebbene la giurisprudenza abbia costantemente cercato di attenuarne il rigore. A ben guardare, oggetto del contendere è stato essenzialmente se e in che misura accettare la decriminalizzazione del possesso di stupefacenti per uso personale.
Una decriminalizzazione che in un ampio ventaglio di nazioni si è progressivamente espressa attraverso una miriade di provvedimenti tenuti assieme dalla costatazione del fallimento dell’approccio meramente repressivo. Un fallimento testimoniato dal fatto che, come riportano i dati Espad presentati dall'Iss al Parlamento nella sua relazione annuale sul tema, il consumo di droghe è tutt'altro che marginale, né sembra che lo diverrà nel prossimo futuro. Basti pensare che, tra gli studenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni che frequentano le scuole secondarie di secondo grado, il 33,9% dichiara di aver utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita (M=37,5%; F=30,1%).
Il 33,9% degli studenti italiani di età compresa tra i 15 e i 19 anni dichiara di aver utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita
Sfortunatamente, in Italia la mancanza di un ampio consenso politico su una pragmatica accettazione di questa realtà rimane di fatto un serio ostacolo alla gestione razionale del consumo non terapeutico di sostanze stupefacenti. Purtroppo, nemmeno l’esercizio della democrazia diretta è stato in grado di spingere il pendolo verso una tale accettazione: il responso del referendum del 1993 è stato largamente disatteso e quello di quest’anno sulla cannabis ritenuto addirittura incostituzionale. Ciò differenzia il caso italiano da quello di numerosi altri Paesi.
Tipico è l’esempio degli Stati Uniti, dove la possibilità di esercitare la democrazia diretta è stato, secondo un recentissimo studio, il fattore determinante nella legalizzazione del consumo voluttuario e/o terapeutico di cannabis a livello statale, che ha attivato un meccanismo definito di «innovazione provocatoria» (defiant innovation), in quanto in contrasto con la legislazione federale. Non sempre, tuttavia, l’esercizio della democrazia diretta risponde in maniera innovativa e soprattutto consapevole a quesiti concernenti gli stupefacenti. Lo dimostrano gli studi sul processo motivazionale che ha indotto gli elettori neozelandesi a respingere di stretta misura (50,7% contro 48,4%) il Cannabis Legalisation and Control Bill proposto dal governo. In quella scelta sarebbe stata infatti determinante la tradizionale divisione tra conservatori e progressisti, tra città e campagna, tra giovani e anziani, inevitabile conseguenza della schematizzazione referendaria che incoraggiava la persuasione e l’uso selettivo delle evidenze piuttosto che la discussione razionale sulla qualità delle evidenze stesse.
È probabile che la natura esclusivamente abrogativa del sistema referendario italiano aggravi l’influenza di variabili soggettive nella misura in cui esalta i tecnicismi giuridici nella scrittura del quesito, richiedendo quindi un'esegesi inevitabilmente schierata. Ma è pur sempre meglio che nascondere il problema sotto il tappeto del rinvio come purtroppo si sta facendo da troppo tempo.
Riproduzione riservata