L’ultima eruzione del Vesuvio è stata diversa da tutte le altre. L’eruzione storica più famigerata è senz’altro quella del 79 d.C., chiamata pliniana perché legata alla memoria storica della descrizione di Plinio nelle Lettere (16 e 20) indirizzate a Tacito e in cui si racconta della morte dello zio Plinio il Vecchio – una morte che peraltro gli ha fatto meritare la fama di protomartire della scienza sperimentale da parte di Italo Calvino.
Le eruzioni cosiddette "pliniane" sono particolarmente violente e generano caratteristiche nubi ardenti – somiglianti, nella forma, a un pino mediterraneo –, composte da una mescolanza di materiali solidi (come le ceneri), acqua e gas: esse sono molto calde (oltre i 700 °C) e veloci (in 10 secondi possono addirittura coprire 1 km di distanza) e "scivolano" lungo le pendici del vulcano distruggendo qualsiasi ostacolo.
Oggi le nubi ardenti vengono chiamate più correttamente flussi piroclastici: "fiumi" ad alta temperatura e velocità costituiti da un aerosol di ceneri e altre particelle finissime di origine vulcanica mescolate a vapore acqueo e polveri che spianano la topografia che incontrano nel loro percorso dal condotto centrale o da fratture laterali e possono traboccare o sganciarsi dai fianchi della colonna dell’eruzione. Respirare in una nube ardente, se si dovesse sopravvivere al forte impatto, è impossibile: a Pompei la maggior parte delle vittime morì con i polmoni bruciati dai vapori incandescenti. Una volta solidificate quelle formazioni vengono chiamate ignimbriti (o, più in generale, piroclastiti), e il fenomeno colata piroclastica; per intenderci, questo è il nome che viene assegnato alle ceneri solidificate che un tempo venivano chiamate tufi.
L’eruzione del marzo 1944, avvenuta durante la campagna d’Italia alleata nel secondo conflitto mondiale e descritta dall’allora direttore dell’Osservatorio vesuviano Giuseppe Imbò, è stata però diversa. Prima di tutto, per la minore attività esplosiva, concentrata nella fase finale, e poi per la presenza, in altri casi non frequentissima, di colate di lava, che si sono incanalate fra il Vesuvio e il Monte Somma e che hanno raggiunto il paese di San Sebastiano.
Terremoti, sollevamento percettibile del suolo, apertura di fratture e nascita di nuove fumarole precedono, oggi come in passato, la riapertura del condotto vulcanico in comunicazione con la camera sotterranea dove il magma ricomincia a salire. Il fenomeno più vistoso è, inizialmente, il sollevamento di una grossa colonna di fumo e vapore che trasporta ceneri, pomici e blocchi incandescenti. Quando la colonna collassa, a causa dell'abbondanza di materiali solidi presenti, ciò avviene in maniera repentina, ma in questo caso le dimensioni più modeste impediscono lo sviluppo di flussi piroclastici degni di questo nome.
Le colate di lava del 1944 sono ancora lì, cristallizzate dentro la chiesa e nel centro abitato di San Sebastiano
Le colate di lava del 1944 sono ancora lì, cristallizzate dentro la chiesa e nel centro abitato di San Sebastiano, ma tutti sembrano aver dimenticato che il Vesuvio è un vulcano ben attivo e che non è questione di se ma di quando. Sono circa 300.000 anni che il Somma-Vesuvio è attivo e la sua fase attuale di quiescenza (che dura dal 1944) non significa che esso riposerà per sempre. L'ultimo periodo della sua storia eruttiva è stato piuttosto sottotono (dall'eruzione del 1637 ad oggi), ma in passato l'attività è stata prevalentemente di tipo esplosivo, con ricaduta di ceneri e pomici quando non con scorrimento di enormi nubi ardenti, torrenti di fango e base-surges (fenomeni così chiamati perché richiamano le "onde di base" causate dagli esperimenti nucleari): il Vesuvio è capace di esplodere come una bomba atomica.
E allora perché si torna a vivere dove il vulcano erutta? La risposta non è così semplice e va data inquadrandola nella sua prospettiva storica. Agli inizi della storia umana molto spesso non si conosceva la vera natura di un vulcano: gli stessi romani – nonostante le ipotesi di Strabone – non sospettavano in alcun modo che il Vesuvio potesse essere un vulcano. Da noi la cultura degli eventi naturali, nei fatti, non si è mai pienamente affermata e ancora oggi vengono chiamate "catastrofi naturali" quelle che sono in realtà causate esclusivamente dalla presenza o dalle azioni degli esseri umani. In realtà, le calamità naturali non esistono: esiste solo il naturale divenire di un pianeta attivo e dinamico e la nostra incapacità di tenerne conto.
In realtà, le calamità naturali non esistono: esiste solo il naturale divenire di un pianeta attivo e dinamico e la nostra incapacità di tenerne conto
Secoli fa, però, una giustificazione c’era: piuttosto che la certezza della morte per fame, era sempre meglio rischiare la fine a causa di una nube ardente, visto che la prima poteva avvenire in ogni stagione, mentre la seconda era una probabilità meno frequente. Inoltre, i territori vulcanici sono per loro natura molto fertili per via del potassio e degli altri elementi nutrienti e dunque più adatti alla coltivazione: perché allontanarsi da una fonte di vita? Infine, le colate di lava o i tufi forniscono pietre da costruzione a buon mercato in grande abbondanza, materiali spesso rari o faticosi da procurarsi altrove. Dove c’è un vulcano ci sono, in pratica, maggiori opportunità economiche rispetto ad altre zone meno rischiose – soprattutto quando mancano alternative valide – anche se lì si è costretti a puntare su progetti socio-economici a corta scadenza, che tendono a realizzare profitti prima dell’aggravarsi del rischio. Sono regioni, quelle, in cui le persone sviluppano una certa resistenza all’impatto dei disastri attraverso un progressivo adattamento al rischio.
Tutti questi buoni motivi potevano funzionare secoli fa e funzionano alla stessa maniera oggi nei Paesi del mondo più poveri. Non sono più, invece, comprensibili nel mondo ricco contemporaneo e men che meno in Italia. La costruzione di edifici abusivi fino quasi dentro il cratere del Vesuvio non ha alcuna scusante relativa alla fame e trova un'aggravante oggettiva nella grande disponibilità di informazioni sulla pericolosità delle pendici del vulcano a maggior rischio d’Italia.
In zone come il Mediterraneo, la previsione delle eruzioni vulcaniche – a lungo e a breve termine – dovrebbe essere pratica quotidiana. Alla base della previsione c'è l'elaborazione di scenari, che consentono di immaginare su basi scientifiche le prossime eruzioni, e la sorveglianza strumentale dei vulcani più pericolosi. I sismografi permettono di individuare tremori anomali – legati a movimenti profondi del magma – e deformazioni del suolo, così come è possibile misurare innalzamenti irregolari della crosta. Dall’altro lato, le analisi geochimiche consentono di studiare come cambiano i gas emessi in quantità e in qualità, sia nelle fumarole sia negli eventuali specchi d’acqua presenti. Poiché l'accuratezza della previsione dipende dalla conoscenza del vulcano, gli sforzi degli studiosi si sono concentrati su quegli apparati che possono essere meglio analizzati e in cui le informazioni vanno più indietro nel tempo: il Vesuvio è uno di quelli.
Vale però la pena di ricordare l’ultima eruzione del Vesuvio anche per una ragione culturale, perché non ha segnato quel cambio di passo nei rapporti con il rischio naturale che pure ci si sarebbe aspettato: ancora oggi si pensa che un’eruzione non sia figlia della geologia, ma del fatalismo. E questo ha una radice simbolica proprio in un episodio raccontato da Norman Lewis in Napoli '44 (Pantheon, 1978, trad. it Adelphi, 1993): davanti agli alleati attestati alle pendici del Vesuvio, incapaci di capire come si potesse, da secoli, ritornare a costruire dove la lava era già arrivata, gli abitanti di San Sebastiano erano intenti a "mostrare" icone di divinità locali alla lingua di lava, in particolare la statua lignea del patrono. Ma avevano pronta, appena fuori dal paese, la statua del più potente San Gennaro, contrabbandata da Napoli, ma tenuta coperta sotto un lenzuolo per riguardo verso il santo locale e pronta a intervenire in caso di fallimento del primo. Dopo due giorni la colata si arrestò e da quel momento nessuno ha più considerato il Vesuvio come un vulcano.
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