Gli ultimi quindici giorni di gennaio del 1994 sono quelli che cambiano segno alla nascente seconda Repubblica. Il 26 gennaio, un Silvio Berlusconi poco più che cinquantenne, ringalluzzito da anni di successi televisivi e calcistici e, da qualche mese, di crescenti esternazioni che preannunciano un impegno politico diretto, appare in un messaggio video dove, come i campioni delle sue squadre, annuncia la sua discesa in campo. Qualche giorno prima, il 18 gennaio, aveva fondato Forza Italia come movimento politico, mettendo fine a mesi di speculazioni sempre più insistenti.
Alla fine di quel gennaio, Berlusconi e alcuni dei suoi più stretti collaboratori arrivano con la sensazione che il momento sia quello decisivo, subito prima dell’apertura di una campagna elettorale in cui avrebbero sbaragliato una concorrenza ancora immersa nel lessico e nelle liturgie della prima Repubblica. Avevano preparato bene la discesa in campo, fondando prima un'associazione, poi svelando un inno che sarebbe stato onnipresente, infine ufficializzando l’apertura di una sede. Solo quando Forza Italia era ormai il segreto di Pulcinella, la trasformano in un movimento politico e Berlusconi appare in televisione recitando «L’Italia è il Paese che amo».
Riletti alla luce delle dirette Facebook, delle Leopolde e dell’ormai avvenuto spostamento dell’attenzione dai partiti ai leader, quei pochi minuti di messaggio inviato a tutte le reti televisive e la guerra lampo con cui Berlusconi riempì l’Italia di club, di manifesti e di kit del candidato sembrano non solo lontani anni luce, ma quasi istituzionali nel tono e nell'intenzione comunicativa. Eppure, proprio quella campagna elettorale segnò uno spartiacque in cui si affacciarono per la prima volta le tendenze di venticinque anni di politica italiana: la mobilità dell’elettorato, il ruolo delle televisioni, lo sbilanciamento nell’informazione, le tecniche da convention, la figura del leader politico come corpo mediale.
La reazione, per chi c’era, fu contemporaneamente di disprezzo e paura. Disprezzo e sarcasmo per il «partito di plastica», il «partito azienda», il «partito personale» che rendeva Berlusconi e i suoi interessi il centro della politica. Paura per una svolta a destra che si faceva forte dell’alleanza con la Lega nord e il Movimento sociale italiano, per i «fascisti al governo», per gli spot con cui il governo annunciava il raggiungimento degli obiettivi con un perentorio «Fatto!». La sinistra rispose celebrando il 25 aprile sotto la pioggia torrenziale di Milano, inondando il governo di fax, mobilitandosi per lo sciopero generale, e trovando infine in Romano Prodi un papa straniero in grado, se non di unire, almeno di assemblare una coalizione instabile, tenuta insieme più dalla necessità di fermare Berlusconi che da una visione organica dei suoi obiettivi e del blocco sociale che voleva rappresentare.
Forse Antonio Tajani tra quei pochi fondatori di Forza Italia è l’unico per cursus honorum e visibilità a poter raccogliere l’eredità del Berlusconi politico
Sparito Berlusconi, sparita la sinistra, verrebbe da dire. Con i due ex contendenti della politica italiana a giocare di rimessa come non hanno fatto nei due decenni passati. A interrogarsi su come gestire la pesante presenza dei due leader, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, uno troppo giovane per il pensionamento, l’altro da anni impegnato a divorare (come Crono) i suoi possibili successori. A parte, forse, Antonio Tajani, che tra quei pochi fondatori di Forza Italia è l’unico, per cursus honorum e visibilità, a poter raccogliere l’eredità del Berlusconi politico.
L’eredità del berlusconismo come stile politico – e soprattutto come stile comunicativo – è invece già stata divisa, a destra e sinistra. Se leggiamo un ventennio di fenomeno-Berlusconi alla luce del modo in cui ha interpretato se stesso, come un attore consumato in quel teatrino della politica che ha sempre disprezzato a parole, è possibile vedere come il berlusconismo sia stato, molto più che un'ideologia politica o una pratica di governo, una continua performance della leadership, in cui Berlusconi ha recitato la parte di se stesso in modo molto più efficace di quanto un film come Il caimano non sia mai riuscito a fare. Ed è stata questa politica performativa a rappresentare la vera cifra del berlusconismo, e la lezione che i politici della nuova generazione hanno imparato.
Matteo Salvini, con le sue felpe e le photo opportunity alla guida di una ruspa, assomiglia, piuttosto che a Bossi, al Berlusconi che interpreta la parte del presidente operaio, con un caschetto di sicurezza o un cappello da ferroviere. Matteo Renzi, passato in un paio d’anni da pingue neo-democristiano ad atletico alfiere del cambiamento, ha scalato il Pd provando e riprovando il suo personale discorso del predellino, echeggiando quello con cui Berlusconi archiviò Forza Italia (e tutta la coalizione) per dare vita al Popolo delle libertà. Luigi Di Maio non sarebbe certo dispiaciuto al Berlusconi che faceva casting per i candidati al Parlamento alla ricerca di volti nuovi, efficienti, e ordinati.
Sono tre traiettorie politiche, tutte caratterizzate dalla continua ricerca di un legame diretto, quasi amichevole, tra leader e seguaci (o follower), che non è possibile comprendere in pieno se non si fa riferimento alle prove d’attore di Berlusconi, uno che come pochi è stato in grado di muoversi sul palcoscenico della seconda Repubblica. Qui si vede un importante punto di contatto tra il berlusconismo e l’attuale discorso sul populismo. Se quest’ultimo è meno un'ideologia e più uno stile, una performance (come una parte della riflessione attuale sul populismo sta proponendo), allora Berlusconi ha incarnato, per un tempo rilevante, proprio il trionfo dello stile personale, dell’uso sapiente e al tempo stesso spregiudicato di alcuni (non tutti) degli stilemi del populismo: la lotta manichea tra lui e gli altri, il continuo referendum su se stesso, un certo fare colloquiale – tra il volgare e l’informale – del proporsi come corpo politico, di sicuro impatto per il suo popolo di riferimento tanto quanto è stato esecrato dagli avversari.
Se il populismo è meno un'ideologia e più uno stile, allora Berlusconi ha incarnato, per un tempo rilevante, proprio il trionfo dello stile personale, dell’uso sapiente e al tempo stesso spregiudicato di alcuni (non tutti) degli stilemi del populismo
Berlusconi, del resto, è stato un grande attore tra trionfi e scandali, ed è giusto segnalare questa capacità comunicativa che va al di là delle televisioni e della concentrazione di potere mediatico. Per gran parte della sua carriera politica, Berlusconi non è mai uscito dalla parte che aveva ritagliato per se stesso, passando da un ruolo all’altro e riuscendo quasi sempre a dare una sensazione di naturalezza. Quale sarà, se ci sarà, l’ultima prova d’attore, ce lo diranno le elezioni europee, a cui Berlusconi si sta di sicuro preparando come un Charlie Chaplin in Luci della ribalta.
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